Il processo per l’omicidio dell’appuntato pennese Giovanni D’Alfonso
LE MEZZE VERITA’ DETTE PER GRADI

AMMORBIDITO MARASCHI, NELLA CASERMA DI CANELLI IL 4 GIUGNO ’75 VI FU UN VIA VAI DI CARABINIERI. IL PIANO PER IL GIORNO DOPO E QUEL MILITARE IN BORGHESE DI ALESSANDRIA

 

di Simona Folegnani e Berardo Lupacchini

 

Si potrebbe scrivere un altro libro solo sulle discrepanze emerse dall’udienza che si è tenuta lo scorso 20 maggio ad Alessandria. Chi, passati 50 anni, sperava in una doverosa chiarezza sarà sicuramente rimasto deluso. Vuoti di memoria, versioni contrastanti e qualche sensazionalismo hanno caratterizzato le testimonianze dei carabinieri coinvolti a vario titolo nei fatti della cascina Spiotta (4-5 giugno ’75) per il sequestro a scopo estorsivo (riscatto di un miliardo di lire) di Vittorio Vallarino Gancia per la cui liberazione furono ammazzati il carabiniere D’Alfonso e la brigatista rossa Margherita Cagol.

Il maresciallo Piero Bosso partì da Torino alla volta della caserma di Canelli insieme all’allora capitano Luciano Seno e ad un terzo militare di cui non ha ricordato il nome, nel tardo pomeriggio del 4 giugno dopo l’arresto del brigatista Massimo Maraschi destinato alla custodia dell’industriale. Bosso ha sorpreso la Corte riferendo di aver appreso quella sera stessa dal brigadiere Lucio Prati di alcuni accertamenti catastali sulla cascina di  Arzello condotti dalla tenenza di Acqui Terme almeno 15 giorni prima del rapimento di Gancia e conservate in una “cartellina gialla”. Il sottufficiale ha aggiunto di essersi recato sul posto proprio con Prati senza tuttavia precisare l’orario.

Le dichiarazioni sembrano essere smentite però da alcune circostanze. Nel verbale redatto dalla Legione carabinieri di Alessandria il 5 giugno 1975, furono annotate le dettagliate informazioni sul notaio e sull’acquisto della cascina rese dal precedente proprietario, probabilmente individuato attraverso l’atto di compravendita rinvenuto nel casolare e conservato, come d’abitudine brigatista,  in un cassetto: è la prova che gli investigatori non le avessero ancora raccolte. Proprio a dimostrazione di una certa inerzia è la notizia dell’immediato e brutale trasferimento di Stefano Zanon, maresciallo del nucleo operativo di Acqui Terme, su ordine del generale Dalla Chiesa, piombato ad Acqui; una circostanza indirettamente confermata anche dal carabiniere Stefano Regina che addirittura parlò della sparizione di un fascicolo.

Della perlustrazione notturna al casolare, riferirono anche Lucio Prati e il tenente Umberto Rocca senza tuttavia mai menzionare Bosso il quale, peraltro, non ha neppure chiarito i motivi (ufficiali) che lo avrebbero spinto fino ad Acqui Terme dove sarebbe stato presente anche Seno. Incredibilmente, nessuna indicazione operativa o divieto sarebbero giunti dal Nucleo alla territoriale poiché secondo Bosso non c’era alcuna competenza in merito. “Precisammo  soltanto che saremmo tornati il giorno dopo”. Bosso ha confermato il riconoscimento del brigatista Lauro Azzolini da parte del maresciallo Rosario Cattafi.

La circostanza è stata contestata dal procuratore Gatti che ha mostrato un verbale redatto all’arresto del brigatista, in cui fu annotato il suo rifiuto a qualsiasi identificazione. Una secca smentita alle dichiarazioni di Bosso arriva dal colonnello Luciano Seno. “In quelle circostanze sarebbe stato folle rientrare a Torino – come di fatto avvenne – per partecipare alla festa dell’Arma”. Anche per Seno diverse incertezze e qualche contraddizione sugli orari di permanenza a Canelli. In mezzo ai ricordi sbiaditi del generale Gianpaolo Sechi c’è spazio per un’aspra critica nei confronti del tenente Umberto Rocca che guidò quella pattuglia alla cascina: “Noi non saremmo mai andati a bussare!”. Sottolineando a più riprese un metodo investigativo ormai noto: lunghi pedinamenti, osservazioni, ispezioni. Insomma nessuna avventatezza. Sembra andare in questa direzione un appunto del generale Gianadelio Maletti, capo del reparto D del Sid, che sottolinea l’anticipo di un’azione, ideata appunto dal Nucleo speciale e dal servizio segreto, messa in atto invece da una pattuglia dell’Arma territoriale e disposta dall’autorità giudiziaria locale. 

 

Seno

 

Anche il racconto del colonnello Alberto Aragno, al tempo tenente comandante di Canelli, che arrestò Massimo Maraschi nel pomeriggio del 4 giugno, non è privo di contraddizioni. Aragno ha confermato di aver subito allertato la tenenza di Acqui e non anche le altre caserme limitrofe, per la provenienza da quell’area del giovane. Una circostanza smentita dagli stessi spostamenti di Maraschi, tutti circoscritti alla zona di Canelli, fin dall’incidente col Tardito. Ma Aragno si spinge oltre, negando alcune affermazioni sui motivi che lo spinsero a telefonare a Rocca, esternate durante un colloquio con noi che fu registrato e naturalmente conservato.

 

Aragno

 

Più preciso e puntuale il racconto di Giovanni Villani, all’epoca superiore di Pietro Barberis nell’ufficio di Polizia giudiziaria presso la procura di Acqui Terme. Villani, presente all’autopsia di Margherita Cagol, ha raccontato dei dubbi espressi all’epoca dal medico forense sulla posizione del colpo mortale inferto alla donna e delle voci circolate nell’ambiente militare sull’eroica prestazione di Barberis. Anche le sue dichiarazioni sollevano alcuni dubbi. Secondo il racconto fattogli da Barberis, Villani circoscrive l’uso della pistola da parte del collega al lancio dell’ultima bomba, cioè quando fu ferita mortalmente la Cagol.

 

Barberis

 

Villani in proposito riporta lo stato confusionale che colse Barberis e a causa del quale neppure si sarebbe reso conto di averla uccisa. Dello stesso avviso anche Regina secondo il quale “per quanto ne sapeva Barberis, la Cagol era ancora viva: non si era accorto neppure che giaceva nel prato”. Il racconto di Villani sembra dunque escludere dall’azione del collega i numerosi colpi inferti alle vetture dei brigatisti e tutti concentrati sul lato guidatore. La versione in aula tuttavia diverge profondamente da quella verbalizzata all’epoca dallo stesso Barberis, a partire dalla relazione di  servizio dove afferma di aver risposto al fuoco delle due auto in fuga. La stessa ricostruzione è contenuta nella relazione sui fatti rinvenuta nel covo brigatista di via Maderno, a Milano sei mesi dopo, dove si fa espresso riferimento ai colpi esplosi dal carabiniere in borghese e antecedenti la resa.

Carte alla mano proviamo a fare un po’ di chiarezza. Già la sera del 4 giugno a Canelli c’è un certo affollamento. Oltre agli uomini del Nucleo speciale di Torino giunse anche il nucleo investigativo di Alessandria nella persona del vicebrigadiere Franco Persani, originario del Pavese, evidentemente spedito lì dal colonnello Musti avvisato della piega che le indagini stavano prendendo dopo l’indicazione di massima del luogo di detenzione di Gancia rivelata da Maraschi, interrogato duramente dal carabiniere Dentoni davanti al tenente. Così come per l’inclusione di Barberis nella pattuglia formata da Rocca, di fatto con il nulla osta del procuratore di Acqui, Lino Datovo, l’invio di Persani in trasferta a Canelli è leggibile come il patrocinio fornito dal colonnello Musti. 

Ne deriva che i tre carabinieri del Nucleo speciale si trattengono ben oltre la mezzanotte a Canelli, dividendosi per zone. Il brigadiere 35enne, siciliano di Modica, Antonino Assenza, prestato al Nucleo speciale sempre dal gruppo di Alessandria, rimane a Canelli per sentire Oreste e Cesarino Tardito. Seno e Bosso, dopo il verbale di sequestro dell’auto di Maraschi delle 22.55, si recano col tenente Aragno a Nizza Monferrato per raccogliere le sommarie informazioni di Campora e Parodi, i due camionisti che si erano imbattuti nel sequestro di Gancia ed avevano visto proprio la 124 verde di Maraschi.

 

Assenza

 

Il verbale conseguente da loro firmato è di estrema importanza non soltanto perché segnala la permanenza del Nucleo oltre l’orario riferito in udienza, ma anche perché già nella tarda serata del 4 giugno anche gli uomini di Dalla Chiesa erano in grado di collegare Maraschi e dunque le Brigate rosse al sequestro dell’industriale. La stessa Criminalpol in quelle ore, dopo gli accertamenti sulle vetture usate per il sequestro, aveva già ipotizzato il coinvolgimento del giovane. Stranamente invece la comunicazione dell’avvenuto arresto inviata dalla tenenza di Canelli al Ministero dell’interno nella notte tra il 4 e il 5 giugno non contiene alcun accenno alla sua implicazione nel reato. La tenenza in quel pomeriggio si era già data da fare.

L’auto di Maraschi era stata rintracciata nelle vicinanze del luogo del sequestro, poco dopo la segnalazione del Tardito e sempre da quelle parti furono rinvenuti sul manto stradale frammenti di vetro, un martello e una bandierina uguale a quella che il giovane aveva nel bagagliaio. Gli oggetti furono tutti repertati da Bosso e dall’allora capitano Seno nell’auto di Maraschi. La circostanza fu oggetto di un rimpallo di responsabilità fra l’Arma territoriale e il Nucleo speciale durante il processo dell’epoca contro il solo Maraschi. Quel pomeriggio dunque vi era più di un indizio che collegava il giovane lodigiano al sequestro, e non erano certo le visure catastali. Non è dato sapere se gli uomini del Generale conoscessero l’ubicazione esatta del covo, quantomeno dalle informazioni della territoriale.

Pare certamente strano che abbiano lasciato il controllo di un’operazione di antiterrorismo nelle mani di due tenenze locali. Di fatto, soltanto Rocca arrivò nel posto giusto. Di fatto, nonostante l’arresto di Maraschi, il tenente Aragno non ricevette alcun encomio. Di fatto, soltanto un mese dopo la tragedia, il Nucleo fu smembrato e le successive operazioni del Servizio segreto militare, il Sid, in collaborazione con l’Arma, furono all’insegna di “che Dio ce la mandi buona” (appunto del Sid del luglio ’75 a firma del colonnello Genovesi).

Diversamente da quanto affermato in udienza, non tutti gli uomini di Dalla Chiesa rientrarono a Torino quella notte. Almeno uno infatti si fermò perché la mattina del 5 giugno avrebbe dovuto  ritirare un encomio alla festa dell’Arma, nel comando di Alessandria: era il brigadiere Antonino Assenza. La sua presenza fu certificata insieme a quella dell’appuntato Palumbo e del contadino Bruno Pagliano, anche nella sentenza dell’epoca.

Sull’identificazione di Lauro Azzolini. Il brigatista fu riconosciuto almeno da due dei tre carabinieri intervenuti alla Spiotta. Nulla di ufficiale. Avvenne nel ‘78 in un corridoio del carcere dove Azzolini fu trasferito. Lo racconta Rocca in un’ intervista del 2007. In quell’occasione se la prese con Barberis per essersi opposto impedendo così l’incriminazione del brigatista. Nessuno gli chiese conto di Cattafi che a detta di Bosso, pare averlo identificato proprio nella medesima circostanza, ossia durante un trasferimento carcerario.

Evidentemente la foto di Azzolini non entrò nell’album fotografico del Nucleo neppure a partire dal settembre del ‘76, quando, dopo aver ucciso a Biella il vice questore Francesco Cusano, la dimenticò tra le sue mani spillata nella carta d’identità. L’immagine circolò su tutti i quotidiani locali e nazionali ma nessuno dei tre carabinieri pare averla notata o segnalata. Eppure è molto rassomigliante a un fotofit conservato gelosamente negli archivi della Legione Carabinieri Alessandria e prelevato dagli uomini del Ros per l’attuale indagine. Stranamente i carabinieri riconobbero Azzolini soltanto tre anni dopo i fatti, molto diverso con barba e capelli lunghi.

Altrettanto stranamente l’uomo fu assolto con formula piena dal tribunale di Alessandria che indagò su di lui nel ‘77. Altrettanto stranamente il fascicolo risulta inghiottito dai flutti dell’alluvione che travolse la città nel ‘94. Villani ha confermato il mancato riconoscimento del fuggiasco da parte di Barberis: “Aveva paura per la sua famiglia”. Fa dunque impressione trovare la sua foto in una intervista del settimanale Oggi scattata pochi giorni dopo i fatti nel suo ufficio. Sulle presenze alla Spiotta.

L’argomento più spinoso, un’ intricata matassa che nessuno, neppure dopo cinquant’anni riesce a dipanare. Il conflitto a fuoco fu caratterizzato da tre fasi. La prima coinvolse tre carabinieri e due brigatisti. La seconda due brigatisti e l’appuntato D’Alfonso. La terza due brigatisti e un carabiniere in borghese. L’appuntato D’Alfonso sparò alle loro spalle, i 5 bossoli della sua Beretta, infatti, sono stati trovati lungo il muro del casolare. Da quella posizione non avrebbe potuto colpire le auto in fuga dal lato guidatore come è stato ventilato da qualcuno in udienza.

Se così fosse inoltre, almeno uno dei due brigatisti sarebbe dovuto scendere per ucciderlo con un colpo “ravvicinato” alla nuca, impedendo così il tamponamento. A quel punto però anche il carabiniere in borghese posizionato prima davanti alle vetture e poi di lato, avrebbe visto D’Alfonso. Quindi quando i due salgono sulle auto l’appuntato è già stato colpito a morte. I fori non verranno mai analizzati, così come le pistole dei carabinieri. Verranno invece consegnati al perito 5 inutili (dal punto di vista comparativo, mancando l’arma) bossoli calibro 9 corto.

Sappiamo che l’appuntato D’Alfonso ha sparato, tentando di bloccare i due brigatisti: ce lo racconta anche la relazione di via Maderno. D’Alfonso era solo, abbandonato da chi quella mattina gli sedeva accanto. Il suo coraggio non ha bisogno di essere periziato o quantificato come se il suo operato non brillasse già di luce propria: ha invece bisogno di verità. Perché dunque si cerca ancora oggi di distogliere l’attenzione su quei colpi addirittura contestando quanto dichiarato nei verbali?

Il 5 giugno la festa dell’Arma si celebrò ad Alessandria alle 9 con una cerimonia austera, come ricorda l’articolo de Il Piccolo. Regina litigò a suo dire con il colonnello Musti, rientrando addirittura prima del previsto. È dunque possibile che abbia incontrato il tenente Rocca partito intorno alle 10.30 da Acqui Terme per il giro di controllo che lo avrebbe portato alla cascina dove era segregato Gancia? Dirà Villani al processo che Regina prese l’Alfetta di Palumbo che ostacolava la sua. “Prendi una macchina qualsiasi io mi arrangio” quando glielo disse Rocca? Prima o dopo il suo rientro da Alessandria? É possibile

che Regina arrivato “un pochino prima di Prati” possa essersi sganciato dal collega? Palumbo avrebbe potuto guidare l’Alfetta di Regina invece partì con la sua vettura personale insieme a Silenzi e Piana. L’unica cosa certa è l’abbigliamento del carabiniere che affrontò i brigatisti: aveva abiti civili. Dubbi sull’identità di quel militare sembrano emergere anche dalle intercettazioni di Azzolini. “Barberis non era quello vicino alla macchina, è quello che rimane lassù”, racconta a una familiare. Una frase inquietante, perché il carabiniere in borghese, “quello che sa tutto” è quello che li tiene sotto tiro, quello che può riconoscerlo, quello al quale Margherita Cagol gridò: “Basta, non sparate ci arrendiamo!”. Anche per Azzolini non sembra essere Pietro Barberis. Se non lui, chi allora?

 

 

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