PIOMBO ROSSO, STATO NERO
Penne Il caso del carabiniere Giovanni D’Alfonso. Torino torna ad indagare dopo un libro verità

Due proiettili ritrovati nella divisa da carabiniere di Giovanni D’Alfonso, l’appuntato pennese ucciso dai brigatisti rossi durante la liberazione dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia il 5 giugno del 1975 nei pressi di Acqui Terme. Due bossoli finiti lì dentro non si sa bene se per caso o per una precisa volontà. E chi li avrebbe collocati in una delle tasche? Li ha scoperti il figlio della vittima, Bruno, consegnandoli alla procura della Repubblica di Torino che ha riaperto le indagini su quella significativa vicenda degli anni di piombo volutamente mai chiarita poiché inserita in un contesto di trame oscure del quale ha parlato un libro scritto dai giornalisti Simona Folegnani e Berardo Lupacchini, “Brigate rosse.

L’invisibile. Dalla Spiotta a via Fani, dal rapimento Gancia al sequestro Moro”, edito da Falsopiano. Bruno D’Alfonso, assistito dall’avvocato Sergio Favretto, vuole sapere chi ha ucciso il padre in quella mattina di quarantasette anni fa. Non gli basta la durissima pena inflitta a un altro brigatista Massimo Maraschi, arrestato dai carabinieri il 4 giugno, giorno del sequestro, e destinato alla custodia del rapito. D’Alfonso chiede di conoscere chi c’era insomma con la brigatista rossa Margherita Cagol, anche lei uccisa nel conflitto a fuoco originato dal blitz di una pattuglia guidata dal tenente Umberto Rocca alla cascina Spiotta di Arzello di Melazzo.

La procura di Torino sta lavorando sul fascicolo dopo aver sentito anche uno degli autori. Sono stati ascoltati due fra gli ufficiali allora più vicini al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fondatore del nucleo speciale dell’Arma nella lotta contro il terrorismo. Luciano Seno e Gian Paolo Sechi seguirono le fasi iniziali del sequestro dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia per poi occuparsi in parte delle indagini successive. Ma è dalle pagine del libro che emergono clamorose novità. Come la presenza di un infiltrato nel gruppo che sequestrò per meno di 24 ore l’industriale di Canelli per la cui liberazione era stato chiesto un miliardo di vecchie lire.

Una spia introdotta nelle Brigate rosse dal centro di controspionaggio padovano del servizio segreto militare del tempo, il controverso Sid. L’infiltrazione di un operaio di Mestre che sei mesi dopo il sanguinoso epilogo del sequestro Gancia condusse i carabinieri ad arrestare per la seconda volta e definitivamente Renato Curcio, marito di Margherita Cagol, in un appartamento di Milano. Era stato lo stesso Curcio insieme a Mario Moretti [foto in basso] a ideare il rapimento ed a gestirlo. Non solo. La dinamica del conflitto a fuoco alla cascina Spiotta in quel 5 giugno ‘75 è stata messa ai raggi x dagli autori con la scoperta dei veri motivi che portarono il tenente Rocca, rimasto menomato a causa dello scoppio di una bomba, a bussare alla porta della casa-covo brigatista da due anni. Il libro che fa tutti i nomi e i cognomi possibili non poteva tacere l’identità di chi riuscì a scappare da quella sparatoria, motivandone le ragioni. Il terrorista cioè che sei mesi dopo, sotto il falso nome dell’ingegner Mario Borghi, affittò a Roma l’appartamento di via Gradoli, 96: la base brigatista da cui prese le mosse e fu organizzato il sequestro di Aldo Moro.

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