Vito Tocci, carabiniere scampato alla furia omicida della banda della Uno Bianca a 33 anni dell’agguato in cui è rimasto coinvolto

di Bruno D’Alfonso

 

“Oggi per me è un giorno che difficilmente riesco a dimenticare”. Sono le parole rievocative dell’ex carabiniere Vito Tocci, 60enne di Campo di Giove e che vive a Villa Raspa di Spoltore, che esattamente 33 anni fa sfuggì alla furia omicida della Banda della Uno Bianca. In un post sui social, il ricordo indelebile di una data, 30 aprile 1991, quando in un servizio di pattuglia a Rimini subì l’attentato della Uno bianca e fu colpito da più pallottole sparate da fucili a canne mozze. E quei carnefici erano coloro i quali, ma lo si seppe in seguito, indossavano la divisa dei colleghi della polizia e rispondevano ai nomi dei fratelli Savi. Vito Tocci ricorda quel giorno e lo commemora come fosse un compleanno, una nuova vita dopo aver visto la morte in faccia in quei giorni in cui la famigerata banda seminò sangue e terrore in Emilia Romagna e nelle Marche, tra il 1987 e il 1994, collezionando 24 omicidi e 114 ferimenti. Le gravi ferite che gli sono state procurate in quella notte, gli hanno segnato la vita a tal punto che già dal 1998 ha dovuto lasciare l’Arma dei carabinieri perché affetto da disturbo post traumatico da stress con ansia depressiva. Ancora oggi è costretto a sopportare continue cure e terapie, anche per via di un linfoma B da piombo che ogni sei mesi deve monitorare nel reparto ematologia di Pescara.

“Non riesco a dimenticare per il fatto che rimani sempre psicologicamente colpito e traumatizzato – spiega l’ex carabiniere scelto Vito Tocci, continuando nel racconto dell’episodio drammatico in cui è rimasto coinvolto –. In quella notte del 30 aprile ’91, era l’1,40 quando stavo svolgendo un servizio perlustrativo quale capo equipaggio insieme ai carabinieri Mino De Nittis, alla guida, e Marco Madama. Percorrendo via Siracusa, nel quartiere Bellariva di Rimini, stavamo per transitare in un sottopassaggio, ci siamo imbattuti nell’agguato della Uno bianca che ci colpiva proprio in quel punto, con la chiara intenzione di intrappolarci e ucciderci.

Tantissimi colpi esplosi, che ancora mi rimbombano in testa, quasi tutti riversati su di me: ben 7 pallettoni, di cui 4 vicino alla pleura e 3 tra costole e articolazioni, mentre i due colleghi sono stati colpiti anche loro ma entrambi con un colpo ciascuno sulla spalla destra. Siamo vivi per miracolo – ha concluso Vito Tocci – grazie all’abilità dell’autista che con una pronta e forte accelerazione ha consentito di uscire fuori dalla linea di tiro dei malviventi”.

Un periodo di altissima tensione, in quel periodo e in Emilia Romagna specialmente, paragonabile agli anni di piombo. E tante uccisioni proprio di carabinieri come Vito, ragazzi che lavoravano per l’integrità e la sicurezza pubblica e si ritrovarono trucidati proprio ad opera di commilitoni che avrebbero dovuto adempiere agli stessi doveri al servizio dello Stato. Solo a gennaio di quello stesso 1991, a Bologna, furono uccisi i tre giovanissimi appartenenti della Benemerita Mauro Mitilini, Otello Stefanini e Andrea Moneta.

Ora Vito Tocci, che per quell’episodio in cui è rimasto ferito è stato insignito della medaglia d’oro Vittime del Terrorismo, si sta battendo per far luce sui tanti episodi di sangue di cui si è macchiata la banda della Uno Bianca, risultando tra i firmatari dell’istanza che a maggio dello scorso anno ha consentito la riapertura delle indagini. È lo stesso Tocci a spiegarne i punti oscuri che hanno motivato la richiesta: “Una banda di cui conosciamo solo gli esecutori materiali, ma siamo convinti dell’esistenza di complici e mandanti. Ed è per questo che abbiamo presentato, vittime e familiari, attraverso gli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser, un esposto alle Procure di Bologna, Reggio Calabria e della Procura Nazionale Antiterrorismo, raccogliendo numerosi documenti che dimostrano che diverse azioni di sangue compiute dalla banda Savi nascondono altre verità.  Ci sono troppi lati oscuri, anche nelle indagini, fogli di servizio delle pattuglie dei carabinieri uccisi che spariscono, testimoni che accusano innocenti e che non subiscono alcun procedimento penale ecc., una storia piena di depistaggi”.

Una vicenda che evidentemente fa ancora paura e nasconde, come tante storie di terrorismo che hanno caratterizzato la storia italiana, tante verità inespresse e, soprattutto, non cercate o volutamente occultate.

Vito Tocci, al ricordo amaro e tragico di quell’episodio, associa anche una serie di ingiustizie collegate al suo status di vittima, sul conto del quale non riesce ancora ad ottenere quello che lui ritiene essere diritti sacrosanti. A cominciare da una domanda presentata dal 2017 alla competente commissione medica per ottenere una certificazione di incollocabilità, per acquisire un indennizzo finora mai pervenuto e ingrovigliato nei meandri del diritto amministrativo.

Per poi arrivare ad un’ulteriore battaglia legale che lo stesso Tocci ha intrapreso nell’ambito delle onorificenze, che lo Stato concede in casi come questi al valor civile o militare. Nel suo caso, ad esempio, gli è stata negata la medaglia al valor civile richiesta nel 2015, non riuscendo poi neanche ad ottenere una motivazione abbinata al diniego ricevuto: “Le commissioni preposte per la concessione delle onoreficenze civili e militarisono – ha spiegato il carabiniere in congedo Vito Tocci – dovrebbero essere costituite da rappresentanze di tutte le categorie di militari, quindi non solo dagli ufficiali. Per questo mi batterò ancora, non possiamo continuare a ricevere anche questo tipo di ingiustizie”.

Lunedì 20 maggio scorso, Vito Tocci è stato ospite della trasmissione Far West di Rai 3 condotta da Salvo Sottile, dove ha avuto modo di porre ancora più in risalto la riapertura delle indagini sulle stragi compiute dalla banda della Uno Bianca.

Fabio Savi detto il Lungo, uno dei carnefici della banda della Uno Bianca

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