Il Mio Primo Penne
Vittoriano Di Luzio, uno dei più forti calciatori biancorossi, ci scrive dagli Stati Uniti dove si è affermato come manager e docente universitario

Sono entrato nella “Polisportiva Pennese” alla fine degli anni Settanta. Il calcio era lo sport piu’ popolare, ma non se ne vedeva molto in televisione. Era uno sport duro, maschio, molto diverso da quello che si vede oggi : cartellini rossi rarissimi e quasi esclusivamente per falli a gioco senza palla o offese all’ arbitro, cartellini  gialli per falli cattivissimi.

Erano botte da orbi. C’erano tre tipi di giocatori : quelli che correvano, quelli che menavano e quelli che prendevano le botte. Io appartenevo all’ultima categoria. Il “Penne” di allora era molto di piu’ di una squadra di calcio: era un mondo a sé, una cultura consolidata,  diversa  e scavata nella roccia. Non potevi farne parte a lungo se non sposavi pienamente  la mentalita’ dura e spartana, senza fronzoli e privilegi, se non sviluppavi il forte senso di appartenenza che si era creato negli anni,  consolidato e affinato  piano piano come il vino in una botte di legno.

(Penne -Chieti ’84 – ’85: Di Luziosta percalciare una punizione)

Io arrivai quando Guido Colangelo era già il  “Deus ex Machina”. Era piu’ di un allenatore : era un totem. Un martello pneumatico instancabile e maniacale, un’ energia da posseduto: una specie di  Lupo Mannaro alla costante ricerca di sangue.

L’allenamento finiva, in inverno, quando faceva buio. Ogni sera era richiesto, ad alcuni giocatori, di rimanere e continuare ad allenarsi illuminati dalle luci della vecchia Golf del mister. Io ero sempre nella lista di chi doveva fare lavoro straordinario : si rientrava che l’acqua calda delle docce era finita, ma non potevi lamentarti.

Dopo una sconfitta seguiva una settimana di lutto Arabo. Pantaloncini e magliette nere durante gli allenamenti non erano richiesti, ma erano graditi. Era comunque un segnale di partecipazione al dolore e di pentimento profondo.

Le botte, durante le partitelle infrasettimali, rappresentavano la flagellazione necessaria per purificare lo spirito dal peccato della sconfitta. Purtroppo a prenderle erano sempre gli stessi….

Chi resisteva alla pressione, fisica e psicologica di Guido Colangelo, negli anni sviluppava una capacita’ di sopportazione della sofferenza tipica dei Marines americani, ed eri pronto per la vita. Gli saro’ sempre grato per questo.

Prima di ogni partita c’era il rito frenetico del cambio dei tacchetti: ognuno con una chiave alla ricerca di quelli giusti da montare. Mi ricordo che l’unico che non aveva questo problema era Vincenzo Antonioli.

Era leggero e veloce come un gatto. Picchiava come un fabbro Albanese. Usava sempre tacchetti di alluminio da 2.5 cm. Sui campi asciutti, naturalmente, era sempre due-tre cm piu’ alto, un giocatore con I tacchi a spillo,  ma lui non se ne curava. E picchiava….

( Penne ’82 – ’83)

Le difese di quegli anni erano, per lo piu’, composte di  giocatori “cattivi”e il Penne , a volte, schierava Giannetti, Tranquilli e Antonioli con Ranieri come libero. Il rumore dominante, nelle nostre retrovie,  era lo scricchiolio delle ossa e grida di dolore.

Luciano Marini, Franco Castellucci e Vincenzo Pilone alzarono il tasso tecnico abbassando il “ tributo di sangue” dei nostri avversari. Vincenzo Pilone doveva avere  quattro polmoni: due per correre e giocare, due per parlare in continuazione. Aveva sempre qualcosa da dire e ridire a qualcuno: che fosse un compagno, o l’arbitro  oppure un avversario e non smetteva fin tanto che non trovava il prossimo obiettivo.

Era fortissimo Vincenzino: veloce, tecnicamente dotato e aveva una forza nelle braccia impressionante. Se anche gli prendevi il tempo in velocita’, ti sbarrava il passo con un braccino di ferro. Il piu’ spassoso e intelligente era Enzo Di Federico: come tutte le persone intelligenti, non si prendeva mai troppo sul serio e riusciva a elaborare umorismo da ogni situazione.

Una volta, eravamo verso la fine del campionato, gli fuoriscì l’osso femorale dall’anca per una caduta sciocca alla fine dell’allenamento. Lo caricarono sull’ambulanza e a sirene spiegate lo portarono in ospedale.

Sulla salita che dal campo vecchio porta in paese, le porte posteriori dell’ambulanza si aprirono alla pressione della barella che non era stata fissata bene. Fortuna volle che Giuliano Mergiotti, che sedeva con lui nell’ambulanza , fu pronto a trattenere il lettino con le ruote  prima che toccasse terra.

Quando lo andammo a trovare in ospedale, era ancorato drammaticamente al letto con un gesso che andava dal collo alla caviglia. Prima che qualcuno  aprisse bocca per esprimere dispiacere e sconforto, lui disse : “Vi immaginate se Giuliano non mi avesse trattenuto? Sarei arrivato in piazza a Loreto gridando  “ e’ una gara di barelle , scansatevi che adesso arrivano anche gli altri!”

Correva l’anno 1985, se ricordo bene, e il nostro allenatore era Arturo Bertuccioli. Era un uomo mite, prudente e che sapeva di calcio. Bisogna ricordare che a quei tempi non c’era internet e di calcio in TV se ne vedeva poco .

 Il know-how, le tattiche  si trasmettevano per via diretta, per esperienza personale,  di persona in persona, come oggi accade solo con il virus. Il buon Bertuccioli, avendo giocato per dieci anni in serie A , aveva acquisito nozioni di tecnica e tattica superiori a quelle di uso e costume nell’area vestina.

Era una gran brava persona, Arturo: onesto, superstizioso, attento ai soldi  ( come tutti gli allenatori) e anche timoroso di Dio. La transizione da Guido Colangelo a Bertuccioli fu come passare dal fare l’alpino a Codroipo a fare il bagnino a Riccione: si poteva persino sorridere dopo una sconfitta!

Bertuccioli usava accompagnare lo stupore e la felicita’ con l’espressione “ Dio boia!”, e la rabbia con “boia Dio!”. Oggi questo tipo di espressione e’ considerato blasfemo ed e’ giustamente bandito in qualsiasi circostanza. A quei tempi era quasi normale e non era ispirato da nessuna volonta’ di bestemmiare.

In ogni caso il nostro mister decide di andare a trovare Enzo, imbalsamato dal gesso e rispedito a casa a Picciano. Arrivato in paese chiede dove fosse la casa di Enzo Di Federico e viene mandato in una contrada fuori dal centro abitato. Arriva davanti ad un casolare di campagna, alcune persone gli si fanno incontro e lui dice di essere andato a trovare Enzo.

“Troppo tardi” , fu la risposta. “Abbiamo appena finito il funerale “. “Boia D..!” esclamo’ Arturo, “ quando e’ morto?”. “ Ieri mattina , e oggi pomeriggio l’abbiamo sotterrato”. Amen.

Si innesco’ un turbine di emozioni forti, sincere , Arturo rimase molto scosso. Entro’ in casa , c’erano circa venti persone, le bacio’ e abbraccio’ tutti con commozione e sincerita’. Si tenne abbracciato ad una signora, che doveva essere la madre di Enzo, per circa quindici minuti.

Piansero insieme, abbracciati, mentre un cane bavoso lo leccava sulle ginocchia bagnandogli i pantaloni. Ogni tanto la signora si staccava e, a singhiozzi, diceva qualcosa in dialetto. Arturo non capiva e si limitava ad annuire e, con le lacrime agli occhi, ripeteva “ D…boia”.

Insistettero perché rimanesse per il “Console”. Lo fecero sedere a tavola come uno di famiglia, visto anche il suo stato di turbamento. Consumarono un menu’ ricco di brodo di gallina vecchia, chitarrina al sugo con carne macinata,  coniglio alla cacciatora con contorni vari, macedonia di frutta, caffè ed ammazza caffè.

L’ammazza caffè fu determinante : la signora anziana dell’abbraccio, che poi si scoprì essere la moglie del defunto, fece coraggio e chiese a questo gentile sconosciuto come conoscesse il suo Enzo. Arturo disse: “ Io sono l’allenatore “ .

“ Ahh l’allevatore! Quello da cui Enzo comprava  i maiali?”, rispose un altro signore. In quel momento, il povero Arturo, realizzo’che forse si era trattato di un equivoco.

Ci furono quindici minuti di chiarimenti: Enzo, quello morto, aveva 78 anni ed era un omonimo del giocatore. Dovette ri-baciare tutti perche’ si era integrato così bene nell’ambito familiare…Gli consegnarono, come ricordo della serata , un santino del povero defunto, una “corona” di cipolle nostrane, una bomboniera delle nozze d’oro tra Rosaria detta Rosa e Vincenzo detto Enzo Di Federico  , e se ne tornò a casa.

Il giorno seguente l’allenamento fu una specie di teatro con il mister che raccontava l’accaduto e non si faceva capace del grande equivoco. Va detto a suo credito che capiva poco o niente del nostro dialetto e quindi tanti piccoli dettagli gli sfuggivano.

Diceva “ D..boia! che situazione di merda! Comunque tutto e’ bene quel che finisce bene. Enzo e’ vivo ed e’ questo che conta. L’unica nota stonata e’ che mi hanno pregato di rimanere per il Console, ma quella testa di rapa non si e’ presentato”!    

Ricordo sempre quegli anni passati a giocare a Penne, bellissimi e ricchi di intensita’: un ambiente unico, quasi magico, in un paese straordinario.

Vittoriano Di Luzio

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