Un mondo che scompare nel Mio nonno l’olivo di un uomo che, giunto al tramonto della propria esistenza, vede nel nuovo che avanza l’inesorabile fine anche del rapporto dialettico tra l’uomo e la natura, l’uomo e il divino.
La tecnologia può aiutare a non interrompere il ciclo naturale? L’uomo, arrivato nella piantagione di olivi per la potatura stagionale, è scettico, perché nonostante le mirabolie della scienza, vede intorno a sé abbandono, incuria, piante lasciate morire incolte. L’olivo, l’alter ego del protagonista, viene soppiantato dal tabacco, più redditizio. Oppure viene estirpato per costruire nuovi palazzi. Ed è come se il cemento arrivasse addosso al potatore, lo sommergesse bloccando la vita del terreno, delle piante, dell’uomo, seccandone l’anima. Lo Stato, l’organizzazione sociale, è lontano, con la sua andatura burocratica ingessata. Interviene con carte bollate, tempi biblici e delibere misteriose come presso il letto di un moribondo, con la consapevolezza di non poter far nulla contro la prepotenza del nuovo corso che avanza. Dove andrà a finire la sapienza del contadino, dello stagionale, dell’artigiano dopo il trapasso di questi mestieri? E’ la domanda che aleggia nel racconto di Fausto Roncone che, come un vecchio cantastorie, altro mestiere scomparso, ci invita ad entrare in questo dialogo con l’olivo, ora in mezzo ai campi, ora davanti al focolare, ora in un’arringa pubblica contro un nemico impalpabile. E, con il supporto dell’organettista Matteo Di Claudio che con il suo diciotto bassi, evoca mondi poetici nei quali si addendra il narratore come na nu bosche di live, continua l’incanto del racconto.
Musiche dal vivo Matteo Di Claudio
Musiche originali di Roncone/Di Claudio
Regia Giacomo Vallozza
Luce e suono: Pierpaolo Di Giulio
Scene e costumi: Teatro del Paradosso
Ufficio stampa: Edda Migliori