TALPE, IMPRONTE E RIVELAZIONI SULLA STRADA DELL’INDAGINE
48 anni fa l’omicidio del carabiniere pennese Giovanni D’Alfonso

Quei misteri uccidono ancora. Sono quelli del 5 giugno 1975 allorchè in una cascina dell’Alessandrino i carabinieri di Acqui scoprirono, non di certo casualmente (anticipando il Sid e il nucleo speciale di Dalla Chiesa viaggiando su binari paralleli), il luogo dove da meno di 24 ore era segregato, allo scopo di estorcergli un miliardo di lire, l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia; era finito nelle mani delle Brigate Rosse comandate in quell’azione da Margherita Cagol, poi uccisa nel cruento conflitto a fuoco che costò la vita all’appuntato pennese Giovanni D’Alfonso di 45 anni padre di tre adolescenti. Con una prigionia intorno ai 25 anni pagò il solo Massimo Maraschi, giovanissimo brigatista lodigiano che ingenuamente cadde nelle mani dei carabinieri di Canelli poco dopo il rapimento dell’industriale di cui avrebbe dovuto essere, nel piano, il terzo carceriere. Quelli che facevano parte del gruppo del rapimento non vennero mai identificati, anche per una precisa scelta degli inquirenti dell’epoca: davano la caccia soprattutto a Curcio evaso tre mesi prima e che in quelle ore non era alla cascina.

È perciò rimasto sconosciuto specialmente colui che faceva coppia con la Cagol la mattina del 5 giugno e che misteriosamente riuscì a farla franca fuggendo attraverso la boscaglia circostante la cascina Spiotta, ad Arzello di Melazzo. Attualmente è in corso una nuova e alquanto difficile indagine da parte della procura della Repubblica di Torino voluta da un esposto firmato da Bruno e Cinzia D’Alfonso, due dei figil del militare ucciso (seguiti dai legali Sergio Favretto e Nicola Brigida), all’epoca la seconda vittima in divisa degli anni di piombo dopo la morte del maresciallo del nucleo speciale Felice Maritano sempre per mano delle Br (gli sparò Roberto Ognibene), nel 1974 a Robbiano di Mediglia. Per l’omicidio di Giovanni D’Alfonso, inserito nella pattuglia guidata dal tenente Rocca che sorprese il covo brigatista, sono indagati Renato Curcio (82 anni), marito della Cagol con cui fondò, insieme ad Alberto Franceschini, le Brigate Rosse, per via del suo ruolo dirigenziale e di un volantino in cui spiegava le modalità operative (aprire il fuoco cioè) da seguire qualora si fosse verificato in ogni caso uno scontro con le forze di polizia; nel registro degl indagati ecco Lauro Azzolini, i cui quattro ergastoli inflittigli per l’uccisione del vice questore di Biella Francesco Cusano e per il sequestro-omicidio di Aldo Moro, grazie alla sua dissociazione, furono commutati in trent’anni (scontati nel 2004); avvisato per la comune accusa di concorso in omicidio anche Pierluigi Zuffada, classe ’45, le cui impronte risultano sulla richiesta di riscatto recapitata all’amministrazione dei Gancia.

(Bruno D’Alfonso a lato del busto dedicato al padre Giovanni, presente all’interno della caserma di Chieti)

Il brigatista lombardo partecipò alla clamorosa evasione di Curcio nel febbraio 1975 dal carcere di Casale Monferrato: su una scala sbucarono le sue impronte. Su Azzolini (nella foto al momento dell’arresto) si sono appuntate le attenzioni maggiori degli investigatori dopo aver scoperto, grazie ai Ris di Parma, che sulla relazione dei fatti del sequestro Gancia, rinvenuta in originale a Milano, ci sono le sue impronte. Era il gennaio del 1976 quando venne riarrestato Curcio il quale aveva fatto richiesta al brigatista fuggito di una dettagliatissima spiegazione su come morì la moglie e sulla rocambolesca modalità di fuga; su quella relazione ci sono dunque undici impronte di Azzolini, ma solo su alcuni fogli del plico che descrive anche con alcuni disegni la dinamica della sparatoria e della fuga. La questione però è anche un’altra. Azzolini venne indagato dal giudice istruttore Martelli di Alessandria nel 1977, dopo la segnalazione di alcuni pentiti proprio per il sospetto di essere l’uomo che fuggì dalla cascina insanguinata. Ne uscì totalmente scagionato ben dieci anni dopo da un altro giudice istruttore, ma il fascicolo non si trova più inghiottito dall’alluvione che nel 1994 danneggiò quella città. Un altro fascicolo pesante, a titolo di cronaca, non si trova ma a Genova: è quello che si riferisce all’irruzione dei carabinieri, nel marzo 1980, in via Fracchia quando, imbeccati dal pentimento di Peci, aprirono il fuoco (dinamica misteriosa anche in questo caso) contro quattro brigatisti, uccidendoli in piena notte, mentre un militare era stato ferito seriamente all’occhio.

Il giudice delle indagini preliminari di Torino, su richiesta della procura, ha deciso dunque di riaprire le indagini sulla vicenda del giugno 1975 nei confronti di Azzolini, quasi ottantenne, prosciolto nel 1987 con formula piena. Davide Steccanella, suo avvocato, grida allo scandalo ed è ricorso in Cassazione. Sostiene che la relazione dell’ignoto brigatista non è affatto una nuova prova, esistendo dal 1976, e comunque la scomparsa fisica dell’intero fascicolo, in cui ci sarebbero gli elementi (ricognizioni fotografiche) che lo scagionerebbero, è decisiva. Ma nel frattempo la procura della Repubblica torinese va avanti. Il sequestro Gancia venne ideato e gestito per loro stessa, esplicita ammissione nei rispettivi libri-intervista del ’93 e del ’94 da Curcio, dalla consorte e da Mario Moretti che, infatti, nell’imputazione provvisoria approntata dalla procura, risultano come protagonisti del piano. Moretti tuttavia non è ancora indagato formalmente a Torino, quantomeno per il concorso morale nell’omicidio di D’Alfonso. Azzolini intanto si è chiamato fuori con una dichiarazione resa ai magistrati, sostenendo di non aver partecipato in alcun modo a quell’azione brigatista. In camera di consiglio il 9 maggio, il suo legale ha spiegato che l’imponente statura del suo assistito (sfiorerebbe i 190 cm) confliggerebbe nettamente con le descrizioni fisiche del brigatista scappato fornite dai testimoni oculari del fatto: tutti i carabinieri cioè che nel frattempo sono morti, tranne l’allora tenente Umberto Rocca rimasto fin da allora menomato per lo scoppio di una bomba.

(Moretti)

L’avvocato Steccanella ha depositato agli atti del procedimento penale riaperto il libro “BR. L’invisibile”, scrito da Simona Folegnani e Berardo Lupacchini in cui si sostiene neppure troppo larvatamente che quell’uomo, capace di fuggire nonostante fosse collocato sotto tiro da parte di un carabiniere in borghese, fu proprio Moretti. Un obiettivo delle indagini è rompere il muro di omertà eretto allora sulla vicenda cercando di far parlare i brigatisti coinvolti. Ma, come riporta il libro agli atti di Torino, il professor Enrico Fenzi, brigatista pentito, quel muro lo ha bucato, riferendo alla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, che vale come una procura della Repubblica, che era proprio Moretti il mister X per averlo saputo in carcere dai compagni del nucleo storico delle Br: da quell’episodio nacquero ed anzi aumentarono i rancori verso il capo brigatista di Porto San Giorgio latitante indisturbato dal 1972 e che, sei mesi dopo il fallito sequestro Gancia, cominciò l’operazione che nel 1978 vide la drammatica fine di Aldo Moro. Lo stesso libro agli atti della nuova inchiesta torinese rivela come le Brigate Rosse all’epoca del rapimento Gancia erano infilitrate ai massimi livelli dalla fonte Frillo: un operaio di Mestre del Petrolchimico di Porto Marghera inserito nell’organizzazione eversiva dal centro di controspionaggio del Sid, il servizio segreto del tempo. Il libro di Lupacchini e Folegnani ne svela l’identità attraverso documenti inediti e foto dell’epoca.

Una carriera di spione durata dal 1971 al 1982 quando fu arrestato dal giudice istruttore di Venezia; poi l’uomo, tuttora vivente, si pentì e in galera rimase ben poco. Fu proprio la fonte Frillo a far arrestare Curcio, Nadia Mantovani e Giorgio Semeria fra il gennaio e il marzo 1976 a Milano dando di fatto il via libera alla leadership solitaria di Moretti. L’audizione dell’ex operaio mestrino, che poi il Sid infiltrò nel partito comunista, aiuterebbe l’inchiesta una cui sua parte tuttavia è ancora copertissima. Perchè la relazione sulla conclusione del sequestro Gancia è stata senz’altro maneggiata, oltre che da Azzolini, da altri brigatisti (fu pubblicata persino nel giornale clandestino che girò nelle varie colonne brigatiste) e che le impronte rilevate, da sole, non reggerebbero un processo allo stato degli atti. Ecco perchè ci saranno ancora da vedere e da capire gli sviluppi di un mistero, anzi dei misteri che coinvolgono la risposta dello Stato. Un noir capace dopo 48 anni di uccidere ancora. 

Fonte Frillo n.2

 

 

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