LA VERITA’ PASSA ANCHE DA DUE BOSSOLI
L’omicidio del carabiniere pennese D’Alfonso nel sequestro Gancia: RIS in azione

Tutto può servire a far luce. Anche quei due bossoli. Sono quelli di una pistola calibro 7.65 che vennero restituiti fra gli effetti personali alla famiglia del carabiniere pennese Giovanni D’Alfonso, ucciso dalle Brigate Rosse nella sparatoria del  5 giugno ‘75 che concluse tragicamente il sequestro dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, uscito senza un graffio dalla brevissima prigionia alla cascina Spiotta, periferia di Acqui. Quarantotto anni dopo, la procura della Repubblica di Torino che nel 2021 ha riaperto il caso in seguito ad un esposto di Bruno e Cinzia D’Alfonso, figli del militare colpito a morte, vuole capire meglio e di più.

Ecco perché il 22 dicembre a Parma inizieranno gli accertamenti dattiloscopici e balistici nei laboratori della sezione impronte del Reparto Investigazioni Scientifiche. I D’Alfonso, su suggerimento dell’avvocato milanese Nicola Brigida, hanno nominato un consulente tecnico balistico di parte: si tratta del toscano Paride Minervini, ex ufficiale dei carabinieri e paracadutista, intervenuto anche nel caso Moro e di recente per la morte dell’orsa Amarena; tra l’altro dispone di attrezzature tecniche all’avanguardia. Per quanto riguarda le impronte digitali, dopo tante mani che hanno toccato quei bossoli e a distanza di tutto il tempo trascorso sarà difficile ricevere risposte decisive, ma D’Alfonso sostiene che può essere individuata intanto l’arma che ha sparato quei bossoli.

“C’è di più”, sostiene Bruno “non è affatto detto secondo Minervini che nel famoso anno 1991 vennero distrutte le armi di quella vicenda così come deciso in tutta Italia per altre situazioni. Il perito non dispera di recuperarle da qualche parte”. Sarebbe un clamoroso colpo di scena, a quel punto. In attesa di sapere gli esiti di questo complesso esame tecnico, si aspettano le decisioni della procura di Torino che starebbe per chiudere le indagini riaperte sul sequestro Gancia in cui si registrò la morte anche di Margherita Cagol, la moglie di Renato Curcio, indagato per l’omicidio di D’Alfonso insieme a Lauro Azzolini (già prosciolto nel 1987 per le stesse accuse, ma il fascicolo è sparito) e a Pierluigi Zuffada.

Le impronte di Azzolini sono state scovate dal Ris sul memoriale consegnato a Curcio dall’ignoto brigatista sfuggito all’arresto. Quelle di Zuffada invece sono sulla lettera di richiesta di un miliardo di riscatto ai Gancia. Il sequestro venne però deciso e gestito anche da Mario Moretti come rivelato sia da lui sia da Curcio in due pubblicazioni autobiografiche. E proprio Moretti è l’indiziato speciale a rappresentare il brigatista che riuscì ad eludere il controllo di un carabiniere in borghese dopo che i due terroristi, dopo aver ferito letalmente D’Alfonso e menomato pesantemente il tenente Umberto Rocca (occhio e braccio sinistri persi irrimediabilmente), si erano arresi.

Nel frattempo, è nelle librerie “Radiografia di un mistero irrisolto. Le Brigate Rosse (e lo Stato) nel sequestro Gancia”, edito da Bibliotheka, scritto da Simona Folegnani e Berardo Lupacchini: aggiorna con importanti novità (la non casualità dell’iniziativa della pattuglia dei carabinieri, le ammissioni di Maraschi, il ruolo dei due tenenti, l’identità del militare in borghese, la figura dell’infiltrato del servizio segreto nelle BR) l’inchiesta giornalistica al centro del precedente saggio degli stessi autori, “BR. L’invisibile” (Falsopiano).  


 

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