di Candido Greco
Fino agli anni in cui scriveva Giovanni De Caesaris il Moto Pennese del 1837 non fu mai compreso nella sua vera natura, credendosi dagli storici o un moto costituzionale nell'ambito della monarchia borbonica o una rivolta anarcoide, “matta” nel peggiore dei casi. Luigi Polacchi, fin dal 1914, anno in cui apparve un suo studio sui Moti del 1814 nel giornale Il Popolo Abruzzese di Teramo, lo ritenne giustamente repubblicano.
A svalutare gli eventi di quel moto contribuì, in maniera forse determinante, un patriota napoletano, Luigi Settembrini (1813-1876) che nella sua opera Ricordanze della mia vita, pubblicata postuma nel 1912, affermò che il governo borbonico aveva condannato a morte nove (sic) poveri artigiani e contadini “che non avevan fatto nulla [!] e non erano fuggiti…..mentre i capi erano fuori”.
A parte l'errore sul numero dei fucilati ed altre inesattezze storiche sulle quali sorvoliamo, il Settembrini raccolse quel che s'era volutamente diffuso per salvare la vita degli otto condannati a morte e cioè che fossero del tutto innocenti, come gli altri arrestati, e che i veri colpevoli avevano preso il volo: Domenico De Caesaris fuggito a Corfù, Filippo Forcella riparato in Inghilterra, e Raffaele Castiglione in salvo a Marsiglia. Ma se questo poteva essere utile prima della condanna, non poteva passare per verità dopo. Forse il Settembrini mirava a screditare i Borboni che avrebbero condannato degli innocenti per i veri colpevoli ma, così facendo, snaturava il Moto del 1837 e la stessa morte degli otto pennesi che fece passare – commenta il Polacchi – per fanciulloni incoscienti.
Non si trattò di traviamento di pochi, così come la Città, per correre ai ripari, voleva far intendere al Re, addossandone la colpa ai tre che erano già in salvo all'estero, ma di una vera e propria rivolta, nella quale furono arrestati ben 102 cittadini, di cui 72 vennero processati. Inoltre a giudicarli fu un Tribunale di Guerra che oltre alle otto condanne a morte, ne emise una all'ergastolo, altre a carcere per lungi anni, altre all'esilio.
Se è vero che gli organizzatori politici, per così dire, si erano messi in salvo per consiglio del Capitano Pignataro, i condannati a morte erano stati in gran parte capi che materialmente avevano sollevato la popolazione ed i nobili, agendo in prima persona nell'assalto alla Gendarmeria Reale. La commissione militare qualificò come “capo motore” dell'insurrezione il Caponetti ed individuò altri tre “capi”: Francescantonio D'Angelo, detto Zagliocco, D. Francesco Paolo Mantricchia ed Emidio Antico che furono condannati alla fucilazione per il “misfatto di lesa Maestà con cospirazione ed attentato per distruggere e cambiare il legittimo governo del Re ed eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad arruolarsi contro l'Autorità Reale in qualità di capo”.
Vediamo di conoscere meglio questi primi quattro condannati qualificati come capi.
ANTONIO CAPONETTI era figlio del possidente Massimo Nicola e della fu Maria Filippa De Caesaris. Era regio notaio dal 1826 ed era coniugato con D. Cristina Marchetti. Era nato a Penne il 2 giugno 1799. Fucilato a Teramo il 21 settembre 1837, fu sepolto nella Chiesa di S. Spirito di Teramo. Non era riuscito a salvarsi con la fuga perché fu catturato poco fuori Brittoli il 30 luglio 1837. Aveva sequestrato l'Ispettore di Polizia nel Corpo di Guardia; aveva liberato i reclusi nelle prigioni, aveva distribuito munizioni agli armati, guidato la folla alle abitazioni del Forcella, del De Sanctis, del De Caesaris, prestandosi alla finzione di indurli con la forza a prendere parte alla lotta. Aveva diffuso la voce che tutto il Regno s'era sollevato. Confessò e rivelò (sotto pressione?) le trame della Rivolta, coinvolgendo i patrioti teramani e la stessa Casa Reale (Il processo ignorò quest'ultima rivelazione e gli atti furono fatti sparire a Napoli).
FRANCESCANTONIO D'ANGELO, detto ZAIOCCO o ZAGLIOCCO, era figlio del fu gabellota Massimo e di Maddalena Trasatti. Era anche lui gabellota al momento dell'arresto, ma un certificato, che mirava a ridurre le sue responsabilità, lo dichiarava “veramente povero ed indigente”. Era stato bottegaio nel 1827 e prima ancora “fornaro” nel 1819. Era avanti negli anni; quando fu arrestato: era sessantenne e perciò sarebbe nato nel 1777, ma nei Registri Parrocchiali risulta nato nel 1780 o 1781. Era fratello di Giuseppe, altro fucilato, e padre di Luigi, da lui salvato dalla morte compromettendo se stesso. Coniugato con Anna Saveria Fioravante, ebbe altri figli che nel 1819 erano i seguenti: Aurora, Chiara e Rosa morte entrambe nel 1819 e Maria Giuseppa. Altra figlia di nome Chiara nel 1837 aveva dieci anni. La sua famiglia abitava nel Rione di S. Giovanni Evangelista, dove era il forno del Barone Aliprandi. Fucilato con gli altri a Teramo, il suo corpo fu sepolto nella Chiesa di S. Antonio a Teramo. Al misfatto di lesa Maestà gli si aggiunse la colpa di aver disarmato la sentinella della Gendarmeria. Fu ritenuto dal Caponetti e dai testimoni autore principale della Rivolta, mentre la Commissione Militare lo ritenne “il più feroce rivoltoso”. Riuscì a salvare il figlio, dicendo di averlo indotto a seguirlo nella Rivolta.
D. FRANCESCO PAOLO MANTRICCHIA era figlio di D. Francesco Angelo, possidente ferraro ed armaiolo, e di Giuditta Ricci. Era scribente (amanuense) nel 1837 e suo padre in tale anno era bottegaio del sale (“salarolo”). Era sposato con Elisabetta Cori di Penne ed era nato nel 1801, avendo dichiarato di avere 36 anni al momento dell'arresto. (Nei Registri Parrocchiali del 1819 risulta di anni 21 e perciò nato nel 1798). Fucilato con gli altri a Teramo, il suo corpo fu sepolto nella Chiesa di S. Spirito di Teramo. Fu ritenuto dal Caponetti e dai testimoni autore principale della Rivolta, insieme a Francesco D'Angelo, e in realtà partecipò a tutte le fasi della ribellione, a cominciare dalle sedute in Casa Forcella con Castiglione e Caponetti e all'ultima quando si convenne il segnale per l'assalto alla Gendarmeria. Guidò armato l'assalto al Corpo di Guardia; con il Forcella guidò la spedizione armata su Loreto, non riuscendo a guadagnarla alla Rivoluzione. Al Vescovo, che invitava a deporre le armi, obiettò: “Monsignore! Oh se voi poteste restituire la giornata di ieri!” E, volto al Castiglione e a Domenico De Caesaris, li invitò a non ascoltare il Vescovo, altrimenti “il sangue che non è scorso prima, scorrerà”. Mentre Castiglione e Forcella s'incontravano col Capitano Pignataro, loro amico, venuto ufficialmente a combatterli, egli, Mantricchia, per ordine di Domenico De Caesaris “suonava intorno per la Città il tamburo della generale”.
EMIDIO ANTICO era figlio di Ciro e della fu Francesca. Era “spiazzino” (netturbino) nel 1937, ma anche bottegaio, per quanto con una rendita esigua. Era calzolaio possidente nel 1819. Era coniugato con Angela Fedele Antico, figlia di Vincenzo Antico che era fabbricatore, vedovo e di anni 70 nel 1819. Era nato nel 1785, data confermata dai Registri Parrocchiali, ed aveva 52 anni quando fu arrestato. Fu fucilato con gli altri a Teramo per il delitto di lesa Maestà con l'aggravante del mancato omicidio di D. Vincenzo Colarossi, al quale aveva sparato, facendo però cilecca la sua arma.
Dei quattro citati il Mantricchia e lo Zaiocco s'erano costituiti, forse accogliendo il consiglio di Monsignor Ricciardone.
I restanti quattro, Bernardo Brandizi, Giuseppe Toppeta, Giuseppe D'Angelo e Ambrogio Palma, furono condannati alla fucilazione per lo stesso misfatto di lesa Maestà e disarmo della Gendarmeria ma “con cooperazione tale che, senza di essa, il misfatto di lesa Maestà non sarebbe stato commesso. Giuseppe D'Angelo ebbe l'aggravante delle ferite procurate al gendarme Francesco Olivieri. Il Toppeta ed il Palma s'erano anch'essi costituiti – ma di ciò non si volle tener conto per nessuno dei rei che, secondo il Giudice Mugnozza, non potevano essere passibili di morte. Il Brandizi ed il Palma, accusati inizialmente di cooperazione secondaria, per loro stessa ammissione nel confronto coi testimoni divennero cooperatori determinanti, finendo davanti al plotone di esecuzione.
Conosciamo meglio questo secondo gruppo.
GIUSEPPE TOPPETA era figlio del fu Paolo e di Anna Maria Ambrosini. Era agricoltore quando fu arrestato ed un certificato parrocchiale lo qualificava povero ed indigente. Era coniugato con Angela Dea Fusaro ed era nato a Penne nel 1795, avendo dichiarato al momento dell'arresto di avere 42 anni. Fu fucilato con gli altri ed il suo corpo fu sepolto in S. Antonio di Teramo.
BERNARDO BRANDIZI era figlio di Massimo Nicola e della fu Eleonora Procacci. Era calzolaio nel 1837 ed un certificato lo qualificava “veramente povero ed indigente”. Era coniugato con Anna Paola Chiarella di Penne ed era nato a Penne nel 1792, avendo 45 anni nel 1837. Fu fucilato con gli altri a Teramo ed il suo corpo fu sepolto in S. Spirito di Teramo.
GIUSEPPE D'ANGELO era fratello dello Zaiocco. Era “spiazzino” (netturbino) nel 1837, ma già contadino nel 1824. Era coniugato con Olimpia Paolone di anni trentuno nel 1837. Era nato a Penne nel 1799 o 1800, avendo dichiarato al momento dell'arresto di avere 38 anni. Fucilato con gli altri a Teramo, il suo corpo fu sepolto in S. Spirito di Teramo. Aveva cinque figli. Per salvarlo i canonici della Collegiata dichiararono che il reo per il passato aveva tenuto condotta regolare, irreprensibile, religiosa.
AMBROGIO PALMA era figlio di Leonardo e della fu Placida. Era tintore nel 1837 ed era coniugato con Maria Giuseppe Forti. Non era di Penne, ma di Lama de' Peligni. Aveva nel 1837 quarant'anni ed era quindi nato nel 1797.
I fucilati di Teramo non erano otto sprovveduti, come si volle far intendere per salvarli, perché l'Antico, il Toppeta, il Brandizi ed i due D'Angelo erano settari, cioè affiliati già della Carboneria e poi della Giovane Italia, i quali erano stati già arrestati per la Rivolta del 1814, quando furono fucilati a Penne Marulli, La Noce e De Michaelis. Quindi si mentiva quando per salvarli si certificava che avevano tenuto condotta regolare per il passato. Erano uomini della tintoria De Caesaris, della cerchia carbonarico-repubblicana di quella famiglia, poi divenuta mazziniana. Anche il Caponetti aveva precedenti perché il sottintendente Carunchio l'aveva fatto arrestare, insieme al Forcella, temendo che tramasse contro il Governo e questo nel 1831, durante i Moti menottiani-marchigiani. Erano, dunque, settari del 14, del 21, del 31. La loro morte pose termine alla loro lunga fedeltà agli ideali repubblicani e con ciò Penne va collocata fra le città di primo ordine del Risorgimento Italiano.
Quanto abbiamo riferito non sta a voler dire che gli otto martiri, dopo tutto la fucilazione se la meritarono, ma solo che la fucilazione li stroncò per quel che di meritevole avevano fatto per la loro piccola patria (Penne) e la loro grande patria (Italia).Furono fucilati perché lottarono per quegli ideali di cui noi ci nutriamo e viviamo da centocinquant'anni: unità, libertà, indipendenza. Per il Settembrini questi artigiani non avrebbero fatto nulla e sarebbero stati immolati solo per il pubblico esempio!