COSÌ HO ARRESTATO MATTEO BOE
Penne L’intervista con Egidio Labbro Francia, dirigente della Polizia di Stato in pensione, in prima linea durante il ’92, nelle indagini che in seguito hanno portato all’arresto di Matteo Boe, primula rossa dell’Anonima sequestri

Ripercorriamo un capitolo passato della storia italiana, gli anni in cui i sequestri per mano della criminalità sono ripetuti e destano grande clamore mediatico gonfiando le pagine dei quotidiani nazionali. Un periodo apparentemente molto distante dai fatti odierni, ricordiamo in questo numero il caso del sequestro di Farouk Kassam [foto in basso], avvenuto nel lontano 1992. Si tratta tuttavia, di anni di cronaca che evidenziano come quell’atavica disparità tra Nord e Sud non sia mai stata colmata, e come anzi si è evoluta negli anni. Quello del banditismo sardo è un f e n o m e n o che affonda le sue radici in un tempo immemore, antecedente persino all’unità d’Italia. Frutto di una cultura spesso emarginata dal contesto della penisola, un codice di cui raramente si è cercato di comprenderne i meccanismi per eliminarne le cause. I casi di banditismo sardo, noti all’opinione pubblica grazie alla stampa, risalgono ormai agli anni ’50, e proseguiti fino agli inizi del 2000, hanno avuto però un’evoluzione spesso cruenta. Una terra cruda quella sarda, un popolo dedito prevalentemente all’attività agro-pastorale, esposto a condizioni economiche precarie, per ovviare alle quali, anticamente si ricorreva sovente al furto dei capi di bestiame tra famiglie vicine. Da questioni interne alle dinamiche dell’isola che venivano risolte facendosi giustizia personalmente, si è passati poi agli anni del boom economico, durante i quali le riforme politiche per il meridione, hanno cercato di arginare il fenomeno senza mai riuscirci pienamente, e i furti di greggi si sono trasformati in sequestri di persona e omicidi volti alla riscossione di riscatti in denaro. La storia insegna che un problema irrisolto non si estingue mai autonomamente, al contrario, continua ad esistere saldandosi alla società, che con l’evoluzione dei tempi, lo assorbe e lo elabora in modo improprio. Gli uomini trovano il modo di conviverci anche scegliendo di vivere nella criminalità, un destino drammatico, dato dall’impossibilità di condurre una vita onesta, per quanto precaria. Lungi dal giustificazionismo, si cerca con questo discorso, di ricostruire il contesto sociale dell’epoca attraverso gli occhi di chi concretamente ha operato per reprimere gli episodi di violenza; di chi ha vissuto davvero in quelle terre e probabilmente ha condiviso con i banditi, le stesse paure, a parti inverse. Proviamo a ricercare le cause, ove possibile, che muovevano gli uomini dell’Anonima sequestri, a compiere gesti estremi, vivendo da latitanti. È il caso salito agli oneri della cronaca, del ra p i m e n to di Farouk K a s s a m per mano di Matteo Boe [foto a destra], arrestato in Corsica dopo un lungo periodo di indagini. Ne parliamo con Egidio Labbro Francia, dirigente della Polizia di Stato in pensione, originario di Penne, laureato in giurisprudenza, entrato in Polizia nel 1989. Dopo soli tre anni di servizio, Labbro Francia è inviato a Nuoro, dove, da reggente della Squadra Mobile, indaga sul sequestro di Farouk, e direttamente contribuisce all’arresto del bandito dagli occhi cerulei, questo era il soprannome per la stampa.

Vorrebbe ripercorrere le vicende del caso per i lettori?

“Il sequestro di Farouk Kassam è stato uno degli ultimi casi di rapimento, se non uno dei più clamorosi. Il fenomeno andò poi scemando perché di fatto si trattava di un reato poco redditizio per i rapitori. Occorrevano investimenti ingenti per tenere un prigioniero per molti mesi, qualche volta per anni, e pagare collaboratori per spostarlo continuamente da un nascondiglio all’altro. Inoltre, qualche mese prima del sequestro di Farouk, parliamo del ’92, era stata approvata una legge secondo cui, in caso di sequestro di persona, venivano bloccati i beni dei famigliari della vittima. In quegli anni, dopo aver vinto il concorso e a seguito del corso di formazione, fui inviato dal Dipartimento per la pubblica sicurezza, alla Questura di Nuoro. Ho ricoperto incarichi molto importanti nonostante la giovane età: ero vicedirigente della Squadra Mobile. Tengo a dire che il dirigente era il dottor Mulas e che nell’ottobre del ’92, mese dell’arresto di Matteo Boe, era a Palermo per un periodo di applicazione, prima del suo insediamento. Dunque, mi trovai in prima persona a seguire il caso del rapimento di Farouk. Si trattava della Questura di una piccola provincia, ma dal punto di vista della Polizia giudiziaria, quella di Nuoro, era una delle più importanti d’Italia. Ripetuti i sequestri, e nel nuorese in particolare, si commettevano ancora reati di sangue, anche 25/30 omicidi all’anno, sequestri di persona, rapine a mano armata, attentati dinamitardi a danno degli amministratori locali. Questo era il contesto e da vicedirigente seguii un caso molto attenzionato. Matteo Boe era tra i dieci latitanti più ricercati e pericolosi, aveva già compiuto dei sequestri, ed era evaso dal carcere dell’Asinara. Un uomo, poi, di cultura, perché era uno studente di agraria a Bologna, azionista di sinistra e indipendentista. Aveva una forte personalità, non parlava mai in italiano, soltanto in sardo, non perché non sapesse parlarlo, ma per sua scelta. Con noi non interagiva e per interloquire con lui bisognava chiamare un poliziotto sardo, ammesso che avesse intenzione di parlare. Le dinamiche dell’arresto: un giorno di ottobre, l’ispettore di Polizia di Porto Torres, avvistò la moglie di Boe pronta ad imbarcarsi per la Corsica, e segnalò l’evento con un telescritto anche alla Questura di Nuoro. In un primo momento il dato non fu preso in considerazione, forse una svista. Due giorni dopo l’arrivo della segnalazione la vidi e coordinandomi con la Questura di Sassari, anch’essa oltre a Nuoro incaricata della cattura, decidemmo di inviare dei poliziotti in Corsica, che, accreditati tramite l’Interpol, fossero in grado di riconoscere il latitante. Non avevamo la certezza che fosse lì, ed erano molti anni che nessuno lo vedeva. Dopo un paio di giorni di appostamenti, i poliziotti lo avvistarono che passeggiava a Porto Vecchio, e una volta riconosciuto, la Polizia francese, già allertata, operò su indicazione dei nostri. Trascorreva un periodo di vacanza con la moglie e i figli. Il giorno dopo l’identificazione, lo arrestarono nella hall dell’albergo in cui soggiornavano”.

Si è trattato di uno dei suoi primi incarichi, quanti anni aveva, e come si sentiva al pensiero di lavorare ad un caso che destava fortemente l’interesse nazionale?

“Nel ’92 avevo trent’anni; e disponevo di un ufficio importante, parlo dei collaboratori esperti, persone capaci che conoscevano il territorio e le sue criticità, uomini che avevano a cuore il loro mestiere, quindi, da giovane funzionario quale ero, sapevo di avere le spalle coperte. Il caso si è risolto positivamente soprattutto per merito loro. Ho trascorso a Nuoro tre anni e mezzo, è stato il mio primo incarico in Squadra Mobile, nell’attività investigativa e non solo, per me è stata una palestra fondamentale, perché quello che accadeva in quei luoghi in un anno, in altri posti, anche in città più grandi, si verificava in dieci anni. I giornali hanno sempre dato poco risalto alla criminalità sarda, a differenza della rilevanza che assume la camorra in Campania, o la mafia in Sicilia, in effetti si trattava di faide interne all’isola, questioni locali, ma erano spesso vere e proprie stragi di civili. Quell’incarico mi ha permesso di apprendere molto e di maturare l’esperienza che mi ha portato in seguito ad a s s u m e r e la dirigenza della Squadra Mobile di Ascoli e poi di Chieti”

 

Qual era il clima sociale che si respirava in Sardegna, e quale idea si è fatto a proposito del fenomeno e della sua evoluzione negli anni attraverso le indagini?

“La Sardegna è una terra – per usare le parole di Umberto Eco – bella e terribile come un esercito spiegato in battaglia. È un luogo che se vissuto ti resta dentro e per capire davvero com’è, deve essere vissuto, non bastano pochi anni. Si vive un clima particolare, mi riferisco alla Sardegna centrale, quella che mi piace definire ‘vera’, i posti in cui ho lavorato e trascorso una parte della vita famigliare. La Costa Smeralda e tutte le località costiere sono fantastiche, ma molto diverse e anche distanti dalla situazione sociopolitica che si vive all’interno. Forse all’epoca il divario era più accentuato, ma si tratta di un modo di vivere e di pensare che ancora permane. In paesi come Orgosolo, Orune, Mamoiada, le leggi dello Stato erano subite e sofferte; anche i giovani restano vincolati ad una serie di codici che rispettano ancora. Posso dirlo per esperienza diretta frequentando spesso quei luoghi, in alcune zone la situazione non cambia. Nel nuorese, a Sassari e nei posti in cui il banditismo ha avuto origine ed è proseguito con gli episodi di cronaca fino agli inizi del 2000, c’è un numero enorme di presidi di Polizia, di Commissariati e di Stazioni di carabinieri, perché si cercava in tutti i modi di controllare un territorio particolarmente difficoltoso, anche dal punto di vista morfologico, zone montane che loro conoscono perfettamente. Chi come me ha vissuto la Sardegna, non solo dal punto di vista professionale, sa che si tratta di una terra particolare che vive con regole proprie. Bisogna imparare a conoscerla per eludere problemi inutili, osservare determinate accortezze, e nel rispetto della legge, evitare gli eccessi, ma soprattutto atteggiamenti offensivi nei riguardi delle persone e di un modo di essere”.

Una carriera nella sezione investigativa della Polizia implica la copertura di incarichi altamente rischiosi. Si tratta di un compito pericoloso, un ruolo, immagino, non facile da gestire, come ci si riesce?

 “Non è così pericoloso, anche altri mi hanno rivolto la stessa domanda, in realtà no, non è così, ci sono lavori anche più rischiosi di questo. Sicuramente possono verificarsi situazioni, durante le attività operative, nelle quali si corre qualche rischio in più, ma tutto sommato il lavoro viene svolto in condizioni di sicurezza. Io ero dirigente e le decisioni finali spettavano a me, ma decidevo anche in funzione di quanto mi veniva consigliato dalle persone di cui mi fidavo, i miei collaboratori. Per quanto riguarda il grado di rischio, inoltre, entra in gioco anche la professionalità: è importante sapersi muovere e capire quali sono le dinamiche da evitare, svolgere il proprio lavoro fino in fondo aggirando attriti o pericoli inutili per sé stessi e per i colleghi. Insegnamenti che si apprendono con l’esperienza e con il buon senso. Nella nostra amministrazione come in ogni ambito, ognuno deve ricoprire il ruolo per cui sa di poter rendere al massimo, e non tutti sono adatti al lavoro investigativo, sono necessarie una certa sensibilità e una capacità spiccata. Si tratta di un lavoro difficile che si apprende attraverso la passione, requisito principale per un poliziotto della Squadra Mobile. Può succedere di dover fare anche 24 ore continuative di lavoro, ma si affrontano perché ci si sente investiti di una funzione importante. Non parlo solo di me, ma anche degli agenti che magari non avevano riconoscimenti particolari per il lavoro svolto, se non dai più stretti collaboratori, tutti avevamo una grande voglia di raggiungere l’obiettivo, e una forte dedizione”.

 

Nella foto, datata 29 gennaio 1993, e prestataci generosamente, il dott. Labbro Francia e l’ispettore Pontis sul Montalbo, luogo in cui Farouk trascorse la sua prigionia.

 

Virginia Chiavaroli

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