di Simona Folegnani
“Brigate rosse. Dalla nascita al sequestro dell’On. Aldo Moro. La Colonna veneta” di Marcello Franceschi offre un importante contributo su una delle principali, sebbene poco esplorate, colonne brigatiste. Franceschi ricostruisce la storia di quegli anni offrendoci una prospettiva diversa, un punto di osservazione privilegiato, quello di un giovane investigatore approdato alla Digos di Venezia negli anni più cruenti dell’attività brigatista.
L’obiettivo dell’autore è quello di arricchire conoscenza e memoria nelle giovani generazioni facendo luce sugli anni più bui del nostro paese in modo schietto e senza alcuna dietrologia. La storia della colonna veneta attraversa due fasi distinte. La prima, caratterizzata dal brutale assassinio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola nella sede padovana del Msi, termina nel ’75 con l’arresto di Carlo Picchiura a Ponte del Brenta dopo un conflitto a fuoco nel quale rimase ucciso l’agente della Polstrada Antonio Niedda. La seconda vede la trasformazione della colonna in Comitato regionale rivoluzionario. Dopo alcune azioni propagandistiche e il sostegno logistico nello stoccaggio delle armi provenienti dal Medio Oriente a mezzo del Papago, i brigatisti veneti si resero protagonisti di alcuni tra i più efferati delitti.
Quello di Sergio Gori fu un omicidio provocato dalla necessità di colpire un bersaglio collegato al ciclo delle lotte operaie dei primi anni ’70 confermando in modo netto la presenza brigatista nelle fabbriche venete. Alfredo Albanese, capo della Digos veneziana, fu trucidato dopo i fatti di via Fracchia. Albanese uomo capace e determinato, tra i pochi ad aver intuito la presenza brigatista in Veneto, non era in alcun modo collegato ai fatti di Genova né alla collaborazione di Patrizio Peci.
Fu ucciso per ripiego a causa dell’incapacita dell’organizzazione di individuare un bersaglio significativo nell’arma dei carabinieri. Giuseppe Taliercio venne assassinato alla fine di un percorso travagliatissimo. Da un lato le Brigate rosse alle prese con la decapitazione dei loro vertici politici e con i dissidi che ne seguirono. Dall’altro lo Stato e la Montedison che non offrirono alcun riscontro. Taliercio infatti, non era detentore di segreti né responsabile delle scelte dirigenziali del Petrolchimico.
All’organizzazione interessava solo colpire un ruolo, quello di capo della fabbrica che aveva in mano il destino degli operai. Sono le parole di Antonio Savasta a tracciare il profilo umano di Taliercio. “Era lui che tentava di spiegarci il senso della vita ed io non capivo da dove prendesse la forza di sentirsi così sereno”. Senza saperlo quell’uomo mite cominciò a gettare il seme del pentimento tra i suoi carcerieri e quello di Savasta fu tra i più travagliati e sentiti della storia brigatista. Succede solo quando si riscopre quel senso di solidarietà, di umanità da cui ci si è alienati.
Il fallimentare esito del sequestro del generale James Lee Dozier fu la pietra tombale della colonna veneta come perfettamente sintetizzato nella lettera sottoscritta dai quattro brigatisti arrestati in via Pindemonte a Padova. “Siamo partiti da una costruzione, da un’analisi tecnicamente giusta e l’inevitabilità della lotta armata era stata la nostra scommessa con la storia. Questa scommessa l’abbiamo persa”.
Il racconto dell’autore procede serrato attraverso la cronaca asciutta dei fatti dando tuttavia spazio alle emozioni di chi, giovanissimo, ha vissuto quegli anni difficili. Profilo basso, camaleontico, “uno dei tanti” come solo i più bravi sanno essere. Neppure la pensione lo ha cambiato. Franceschi ci coinvolge attraverso una narrazione chirurgica in un racconto duro e travagliato, senza tuttavia scadere in alcun esibizionismo al solo fine di rubare la scena ai veri protagonisti del libro: i fatti. La vera impronta, il valore aggiunto per nulla scontato in un investigatore, è la capacità di raccontare, senza mai ergersi a giudice, anche il lato umano di alcuni brigatisti, nel loro travagliato percorso emotivo.
Marcello Franceschi classe 1956 approda alla Digos di Venezia nel 1980 dopo aver prestato servizio a Padova e a Roma al Reparto Autonomo del Ministero dell’interno.
Scrive questo libro soprattutto col desiderio di sottolineare la proficua attività di contrasto della Digos veneziana che ebbe il merito di far luce sugli omicidi Albanese, Gori, sull’introduzione clandestina dell’ingente carico d’armi provenienti dal Libano, oltre alla molteplicità di vicende che costituiscono la storia delle due colonne venete,
Ludmann e 2 agosto. La tragica morte del dott. Albanese provocò un intenso dolore nel reparto. Il fatto che avesse solo 33 anni e lasciasse una moglie incinta acuirono profondamente quella sofferenza, rimasta inalterata nel tempo. A lui e a tutte le vittime del terrorismo Franceschi dedica il suo lavoro.