Chissà se questo sarebbe stato l’augurio di Ennio Flaiano per il compleanno di Alberto Sordi!
Gli anniversari della nascita di entrambi, aprono e chiudono dei mesi terribili.
Intanto a Pescara Il premio internazionale Flaiano di Letteratura 2020 viene assegnato allo scrittore Javier Cercas e dal 27 giugno al 5 luglio un ricco programma celebrerà la 47esima edizione del Flaiano Film Festival con le sezioni di letteratura e italianistica, cinema, teatro, televisione e giornalismo.
di Maria Laura Platania
15 giugno 1920 nasceva Alberto Sordi: mentre Ennio Flaiano, appena compiuti dieci anni, già passeggiava indolente e critico le vie della sua Pescara, l’altro spalancava i suoi occhioni azzurri al suono del Campanone di una Roma che già sospettava il cadenzato passo di marcia che stava per invaderne le vie.
Ennio Flaiano e Alberto Sordi, e, se le date non sono numeri ma pietre miliari della nostra storia, ricordarli insieme, oggi, che, Urbi et Orbi, si celebrano i cento anni dalla nascita dell’attore più amato d’Italia, acquista un senso speciale. A unire i due grandi non sono solo due film importanti e indimenticati, sceneggiati dall’uno e interpretati dall’altro, quali Lo Sceicco Bianco e I Vitelloni ma un disincanto nei confronti della vita che pure hanno intensamente vissuto e amato, lasciandocene gusto e malinconico rimpianto.
Pescara, che ama profondamente il suo illustre concittadino, causa emergenza, ha potuto celebrare il 110° anniversario dalla nascita- 5 marzo 1910- solo con un bel comunicato della Presidente dei Premi Internazionali Flaiano, l’Avv. Carla Tiboni, diramato rinnovando la memoria di un genio tutto pescarese.
Con Roma aveva stabilito un legame indissolubile a partire da quel viaggio in treno che il 27 Ottobre lo aveva portato nella Capitale insieme al manipolo di valorosi che ne andavano alla conquista: conquiste diverse che Ennio, l’aforista, avrebbe ricordato con gustosi aneddoti. La prima vicenda significativa della vita di Flaiano, dunque, è già di per sé una sceneggiatura, scritta da un ironico autore chiamato Destino, dotato di immenso senso umoristico.
Lui, nato nel quartiere di Portanuova e ultimo dei sette figli di Cetteo e Francesca, arriva a Roma nel 1922 viaggiando su un treno affollato di fascisti che affluivano nella capitale in occasione della fatidica Marcia. Fotografie di un’epoca che immortalano tuttavia caratteri umani sottratti ad ogni connotazione cronologica.
Eppure, le sue solide radici gli erano rimaste nel cuore: “Adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto; cioè l’orgoglio di esserlo che mi riviene in gola quando meno me l’aspetto, per esempio quest’estate in Canada, parlando con alcuni abruzzesi della comunità di Montreal, gente straordinaria e fedele al ricordo della loro terra. Un orgoglio che ha le sue relative lacerazioni e ambivalenze di sentimenti verso tutto ciò che è Abruzzo. Questo dovrebbe spiegarti il mio ritardo nel risponderti; e questo ti dice che sono nato a Pescara per caso: c’era nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anche essi del Teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori d’oggi… Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora nu cristiane), la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei. Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo come regione remota: «Gli è più lontano che Abruzzi»); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella son le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare… Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue.”(1)
Tutto è abruzzese in Flaiano almeno quanto tutto è romano in Alberto Sordi che incolla al nostro collettivo immaginario i suoi ricordi: “Avevo quattro anni quando vidi per la prima volta San Pietro e fu proprio per il Giubileo del 1925. Ero in compagnia di mio padre, venivamo da Trastevere, dove ero nato in via San Cosimato e dove vivevo con la mia famiglia. Arrivammo percorrendo i vicoli, che poi furono distrutti, di Borgo Pio: un ammasso di casupole, piazzette, stradine. Poi, dietro l’ultimo muro di una casa che si aprì come un sipario, vidi questa immensa piazza. Il colonnato del Bernini, la cupola. Un colpo di scena da rimanere a bocca aperta. Ecco, quello che ricordo di più di quel Giubileo fu questa sorpresa.”
La sorpresa del privilegio di una nascita: “Noi abbiamo avuto il privilegio di nascere a Roma e io l’ho praticata come si dovrebbe, perché Roma non è una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi”.
L’orgoglio di una appartenenza unito a quel naturale disincanto del Romano che ne ha viste tante: “Avevo intorno ai tredici anni, era il 1933. Ci sembrò un sogno. Una mattina alle 9, a Palazzo Venezia, l’usciere Navarro ci fa entrare nella mitica Sala del Mappamondo. Era immensa e lustra come uno specchio. Mi tremavano le gambe. Il Duce ci aspettava dietro un grande tavolo. Salutiamo romanamente nelle nostre divise fiammanti. Poi il Duce parla con voce rotonda: “Camerati, vi ascolto”. Al che il veterano si slancia in avanti: “Eccellenza, Duce, ecco il mio piano laborioso. Darà lavoro a centinaia di persone”. E gli porge alcuni fogli con mappe e grafici. Passano cinque, dieci secondi, sufficienti perché Mussolini intuisca tutta l’inconsistenza del progetto.
“Mi vorreste alla posa della prima pietra? No – dice – vi do tempo. Verrò all’ultima”.
Così ci licenzia, e noi usciamo dal palazzo come cani bastonati. Mi è servito in seguito.
Non ho più raccomandato nessuno e a chi me lo chiedeva rispondevo: Mi è andata male persino col Duce.”
Alberto Sordi non è stato soltanto un grande attore, un inimitabile interprete di commedie: nessuno come lui ha raccontato l’Italia dai tempi del fascismo al nuovo millennio attraversando la ricostruzione, l’emigrazione, il boom economico, il femminismo, l’euforia degli Ottanta, il rapporto con la Chiesa, l’evoluzione della coppia, l’arroganza del potere, la solitudine degli anziani. In circa duecento film, tutti preziosi documenti antropologici, Alberto ha smantellato la retorica dei sentimenti con l’umorismo spietato della sua osservazione. La sua forza? Portare sullo schermo tipi umani presi dalla realtà, nei quali chiunque potesse riconoscersi. E nella storia di Sordi, Roma è stato il grande amore, il luogo dove magicamente si sono intrecciati i film dell’attore e la sua biografia densa di eventi e incontri, appassionante come un romanzo.
Per Flaiano, Roma, oltre essere la sua città elettiva è stata soprattutto una fonte inesauribile di spunti, di gesti, di sarcasmo graffiante, di invenzioni becere e geniali. Una sorgente da cui attingere a piccoli sorsi, quanto basta per apprezzarne il gusto senza assorbirne i veleni, le piccole furberie, i pettegolezzi e il chiacchiericcio dei grandi salotti alla moda, schivati con cura.
Ma il mondo del cinema lo chiama a sé, attrazione e sbocco naturale, in un rapporto conflittuale, mai risolto; è questo il luogo ideale in cui far agire e mettere in moto le sue idee e i suoi paradossi e sul fronte opposto luogo di vanità e compromessi a lui alieni. In un primo momento lavora come critico cinematografico per diverse riviste per poi approdare alla sceneggiatura e all’incontro con Alberto Sordi. Incontro fortunato per entrambi. Alberto, amico di Fellini, il timido artista smagrito da inevitabili digiuni postbellici, entrambi, come scrive Flaiano in uno dei suoi più citati aforismi “Con i piedi ben piantati sulle nuvole”.
E cosa sono le nuvole se non scala solida per l’Empireo degli artisti?
Da questo incontro a tre nasce quel capolavoro de Lo Sceicco Bianco, storia becera di un guitto che approfitta della sua posizione di divo da rotocalco per casalinghe sognanti per sedurne una, la più ingenua, antica, sciocca. Bene, Flaiano ci ha mostrato che è possibile racchiudere il mondo in una sequenza di immagini fondate su una esile storia, di cui è possibile cogliere, però, il dritto e il rovescio di ogni storia. Lui il marziano, l’abruzzese proveniente da mondi di solida stralunata realtà. La parola che ricompone il reale quella di Flaiano, il corpo che comprende le nostre viscide miserie Alberto.
Ci manca Flaiano. Manca a questi tempi incerti e confusi, in cui il più in lockdown sembra il comune buon senso, la capacità di discernere, distinguere, in questo autunno del mondo tra crisi globali e perdite d’identità, tra opportunismi e nuove barbarie.
Manca Alberto, che volentieri avremmo voluto abbracciare e soffiare con lui quelle cento candeline di trionfi e malinconici ricordi, manca il suo sguardo dissacrante, ma sempre ironico, quella sua ben celata generosità, il suo sentimento del tempo, degli affetti, delle opportunità, manca a noi Italiani, un popolo ingegnoso troppo avvezzo a scambiare la furbizia per intelligenza.
Che bel vecchio sarebbe stato, ma ci consola della perdita la convinzione che sia morto per tempo, prima di vedere il quadro in tutta la sua desolazione, prima di dovere immaginare un carattere umano nuovo e antico, intriso di egoismo e autoreferenzialità, caratteri più che uomini che,
per dirla con Flaiano, l’abruzzese: “Si battono per l’Idea, non avendone”.
Buon compleanno Alberto interprete eccellente dei nostri tanti vizi e virtù, buon compleanno Ennio genio che, questa è una certezza, saresti rimasto incompreso anche e soprattutto in questi tempi inconcludenti.
1) Da una lettera citata in Pasquale Scarpitti, Disincanto, Sarus, Teramo, 1972.