Ospedale San Massimo, “Acqua, acqua ovunque e non una goccia da bere” (S.T. Coleridge)

Tra le innumerevoli pagliacciate della pubblica amministrazione se ne segnala una, singolarissima, che mette a disagio centinaia di persone tra dipendenti e utenti dell’Ospedale San Massimo, fuori dal quale, altrettanto singolarmente, neppure se ne parla.

Si tratta di un problema all’acqua potabile, che perdura da settimane, manco fossimo in centrafrica. Fu annunciato il 17 marzo scorso, quando si diramò l’“invito” (sic!!!) a non utilizzare l’acqua del rubinetto “a scopo potabile” (nello sgrammatico linguaggio del carrozzone ACA) sia in Ospedale che nel Centro Storico di Penne. Il 24 marzo, un avviso (di fonte municipale) segnalò la cessata criticità, ripresentatasi, tuttavia, il 5 aprile, questa volta nel solo Ospedale dove si dispose il divieto di utilizzare l’acqua per “uso umano”. Stupisce l’incredibile protrarsi di un simile stato di cose all’interno di un presidio ospedaliero. Il perché, al solito, oltre al Padre Eterno, lo sa solo il putrescente e deresponsabilizzato mondo del pubblico guazzabuglio. Sarebbe bene che lo sapessero pure gli utenti e i lavoratori del San Massimo, inibiti, questi ultimi, dal lamentarsi pubblicamente dell’ente e obbligati, quindi, a una condotta omertosa dai “codici” interni (grazie alle conniventi norme criminogene dello stato, per le quali la pubblica amministrazione può essere, sì, una “casa di vetro” ma oscurato!). Eppure, l’azienda è incapace, da settimane, di venir fuori da questa situazione che lascia interdetti a sentirla raccontare. E siccome i problemi raramente si presentano da soli, quello dell’acqua ne ha generato un altro per i lavoratori del nosocomio. Per un periodo di tempo, a partire da quel 17 marzo, dopo il divieto d’“uso umano”dell’acqua del presidio, i dipendenti furono riforniti di acqua minerale. Provvista che, però, inopinatamente, è stata revocata da un paio di settimane fa, costringendo i lavoratori ad approvvigionarsene a proprie spese, per il consumo personale. Ovviamente, anche un abelinato capisce che, delle due, l’una: o il datore di lavoro non ha nessun obbligo di garantire al dipendente l’accesso all’acqua potabile e, quindi, è un danno erariale quello configuratosi con il rifornimento d’acqua minerale, finché è durato, oppure, al contrario, quell’obbligo sussiste e, in tal caso, sarebbe altrettanto evidente e grave l’arbitrio di non rispettarlo, in danno, anche patrimoniale, dei lavoratori, impediti dal dissetarsi con l’acqua dei rubinetti della struttura. Ma siccome nella babele pubblica è vero tutto e il contrario di tutto e può accadere tutto e il suo contrario senza che si batta ciglio, Lacerba pone la vicenda da quarto mondo, specie trattandosi di un ospedale, all’attenzione dei lettori mentre ai lavoratori del presidio si suggersce, nella convinzione che il datore di lavoro abbia l’obbligo di garantire l’accesso all’acqua potabile, di rivolgersi al responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi (RSPP), per il disagio che li riguarda, ulteriormente aggravato dalle decisioni dell’azienda d’interrompere la fornitura di acqua minerale. Infatti, il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (la legge in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), Allegato IV, così dispone: “1.13. Servizi igienico assistenziali – 1.13.1. Acqua – 1.13.1.1. Nei luoghi di lavoro o nelle loro immediate vicinanze deve essere messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente, tanto per uso potabile quanto per lavarsi. – 1.13.1.2. Per la provvista, la conservazione e la distribuzione dell’acqua devono osservarsi le norme igieniche atte ad evitarne l’inquinamento e ad impedire la diffusione di malattie”. Va, dunque, chiesto all’RSPP se e come ritiene che, nella situazione data, siano rispettate le prescrizioni del decreto in parola; se e come ritiene che siano prevenuti e protetti i rischi per i lavoratori, sia quelli legati alla presumibile contaminazione batterica dell’acqua erogata dai rubinetti della struttura sia quelli derivanti dalla sua inutilizzabilità per il fabbisogno personale; se sia stato individuato il fattore di rischio in argomento ed effettuata la relativa valutazione; se, rispetto al rischio specifico, siano state individuate le misure per la sicurezza degli ambienti di lavoro nel San Massimo. Direttamente al direttore generale, oltre che all’RSPP cofirmatario, andrebbe, poi, pure chiesto se sia stato aggiornato, in dipendenza del rischio in questione, il “Documento Valutazione Rischi” (DVR-artt. 17 e 28 del d.lgs 81/08). Conoscendo il pollame della pubblica amministrazione nulla è sicuro ma non è escluso che l’azienda, muovendosi i lavoratori in questa direzione, si scuota dall’atavico torpore e metta ordine nelle sue altezzose contraddizioni, tipiche di ambienti in cui sono assicurati lo stipendio il 27 di ogni mese e ricchi premi annui di risultato (anche avulsi dagli interessi degli utenti), cascasse il mondo o s’inquinassero tutte le acque del globo. E’ pure probabile che la Asl si preoccupi di risolvere, finalmente, la crisi dell’acqua all’Ospedale di Penne e, intanto, metta a disposizione dei suoi lavoratori l’acqua minerale per il consumo personale, come era stato fatto inizialmente e come impone, anche alla pubblica (dis)amministrazione, la “legalità”, intorno a cui si allestiscono tanti ridicoli, patetici e anche ignobili teatrini.

Giovanni Cutilli

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