E’ una difesa accorata, ma anche un contrattacco nello stesso tempo. Il fondatore delle Brigate rosse Renato Curcio si difende dall’accusa di concorso in omicidio che la procura della Repubblica di Torino gli ha rivolto, trasformando l’interrogatorio come testimone a Roma in un avviso di garanzia. L’omicidio è quello del carabiniere pennese Giovanni D’Alfonso caduto nel conflitto a fuoco che portò i carabinieri di Acqui Terme, diretti dall’allora tenente Umberto Rocca rimasto gravemente menomato, a liberare l’industriale Vittorio Vallarino Gancia.
Era il 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta dove un nucleo delle Br, guidato da sua moglie Margherita Cagol, aveva segregato dal pomeriggio precedente il re delle bollicine, chiedendo un riscatto di un miliardo di lire. Morì anche la Cagol e il marito oggi chiede la verità sulla sua uccisione: si parlò infatti di un’esecuzione dei carabinieri dopo che era ferita e in ginocchio. Un brigatista, che era con la Cagol, riuscì invece a fuggire rocambolescamente nella boscaglia; successivamente inviò allo stesso Curcio un dettagliato rapporto con cui spiegò le fasi del sequestro e l’epilogo.
La nuova indagine parte dall’esposto presentato da Bruno D’Alfonso, già carabiniere, figlio del militare ucciso che lasciò altri due bambini e la moglie. Si è affidato agli avvocati Sergio Favretto di Alessandria e Nicola Brigida di Milano. Curcio nella sua memoria presentata al procuratore di Torino Emidio Gatti ha ripercorso tutti i suoi movimenti, citando il proprio libro autobiografico “A viso aperto” scritto dopo essere uscito dal carcere insieme al giornalista Mario Scaloja. Proprio nel libro Curcio scrisse di aver pianificato il sequestro Gancia con la moglie e Mario Moretti in una base emiliana e che Attilio Casaletti fu il compagno che gli diede la notizia, alle 14 del 5 giugno 1975 a Milano, della sparatoria e della morte della moglie. “Al tempo dei fatti in questione – ricostruisce Curcio difeso dall’avvocato Vainer Burani di Reggio Emilia -ero da pochi mesi evaso dal carcere di Casale Monferrato.
Con Margherita valutammo così che fosse più sensato un mio spostamento a Milano. Tra aprile e maggio operai dunque in relativa autonomia a Milano e conobbi Valter Alasia, mio primo collaboratore in questa impresa. Si decretava anche inevitabilmente un sostanziale isolamento rispetto alle loro pratiche ovviamente molto compartimentate. Non partecipai dunque ad alcuna loro campagna operativa ma venni invitato ad un solo incontro di discussione tra Margherita per la Colonna di Torino, e Mario Moretti, per quella di Milano, che si era reso opportuno poiché nell’organizzazione stava circolando tra i militanti l’idea di aggiungere agli espropri di banche anche eventuali sequestri di banchieri o comunque di persone facoltose. Si concluse che sarebbero state le singole le Colonne a valutare in proprio i pro e i contro, e a decidere in piena autonomia cosa sarebbe stato meglio fare per ciascuna di esse.
Per quanto attiene la decisione della Colonna torinese di mettere in opera il sequestro Gancia non conosco alcun particolare specifico. A ridosso del 4 giugno 1975 tuttavia incontrai Margherita. In quell’occasione fu lei a dirmi che i nostri già radi incontri diretti sarebbero stati temporaneamente sospesi per qualche tempo poiché la Colonna torinese sarebbe stata impegnata in una azione a cui lei stessa avrebbe preso parte”. Curcio naturalmente sa chi riuscì a fuggire dalla cascina Spiotta, tanto da incontrarlo. Enrico Fenzi, pentito, ha riferito alla commissione parlamentare su Aldo Moro nel 2017 di aver saputo in carcere dal nucleo storico dell Br che si trattasse di Mario Moretti.

Berardo Lupacchini

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