CONOSCERE PER INTERVENIRE: IL CASO DI PORTA TERAMO A PENNE

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO – Viste le recenti polemiche sull’intervento di Porta Teramo penso sia il caso di fare chiarezza soprattutto per quanti mi hanno chiesto un parere in merito. Personalmente ritengo giusta la prescrizione della Soprintendenza, ma cercherò di spiegare le motivazioni scientifiche della mia affermazione.

L’intonaco è stato, in tutte le epoche, il materiale più diffuso ovunque e in ogni tipo di edificio perché economico, leggero e di facile e rapida applicazione; proprio per questo la durata relativa nel tempo prevedeva una ordinaria manutenzione. Il fatto che ci siano state tramandate strutture completamente spoglie di intonaco, o per mancata continuità nell’ordinaria manutenzione, o per precisa scelta progettuale o per interruzione dei lavori, non deve indurci a credere che gli intonaci non siano stati applicati. Al contrario, fin dall’antichità, edifici in pietra, mattoni, fango erano ricoperti da intonaco e colore.

Purtroppo, da diversi anni alberga l’idea romantica di riportare a vista qualsiasi paramento murario oggetto di intervento di ristrutturazione. A Penne ad esempio si è pensato di divulgare l’idea che la definizione di “città del mattone” obblighi a mostrare tutti i paramenti privi di intonaco: stessa cosa allora dovremmo proporre per i centri pedemontani che potrebbero essere denominati “città di pietra”. Appare invece molto chiaro che codesta denominazione è legata al materiale utilizzato per costruire la città; dalle case, ai palazzi, alle coperture, alle vie. In un’area collinare ricca di fiumi, l’argilla diventa la materia prima per la produzione delle diverse tipologie di laterizi che caratterizzano, infatti, tutto il centro storico ma con alcune differenze. I mattoni usati per le superfici murarie costituiscono le cosiddette “cortine”: queste, secondo la qualità dell’argilla usata, potevano rimanere a vista e venivano indicate come “cortine nobili” ;quando invece erano eseguite con mattoni di qualità più scadente venivano ricoperte con uno strato di intonaco e chiamate “cortine povere”. In ogni caso bisognava evitare che l’acqua si infiltrasse nella muratura e ne compromettesse la stabilità; quindi i mattoni per le “cortine nobili” erano fabbricati con terre argillose selezionate, simili a quelle utilizzate per le tegole, quindi più compatti e resistenti, i bordi ben squadrati in modo che la malta combaciasse bene tra i giunti che venivano inoltre serrati e stilati, addirittura la superficie della cortina alla fine veniva levigata per una finitura ancora maggiore.

Dopo questa premessa tecnica torniamo al caso in questione: Porta Santa Croce. Seguendo l’approccio del padre del restauro filologico, Gustavo Giovannoni, che prevede prima una attenta analisi sia delle fonti che del rilievo diretto, si evince che in questo caso la cortina muraria è del tipo “povero” ed è nata come cortina intonacata, infatti erano ancora ben visibili le tracce dell’intonaco antico che non ha mai subito un regolare rinnovamento.

Spero di aver chiarito la motivazione che mi porta a ritenere corretto quanto prescritto dalla Soprintendenza. Questa vicenda, inoltre, ci invita ad alcune riflessioni: bisogna essere consapevoli che per esprimere un parere è necessario possedere conoscenze e competenze (che certamente non mancano ai tecnici della Soprintendenza) che dovrebbero anche avere coloro che in varie vesti sono coinvolti nelle decisioni su queste delicate problematiche, sia che si tratti di progettisti che di componenti di commissioni preposte a dare anche delle corrette indicazioni.

 La mia preoccupazione è un’altra: cosa sarà degli edifici non sottoposti a vincolo? Ricordo sempre l’affermazione dell’architetto Giovannoni “bisogna tutelare il monumento, ma anche il suo ambiente di cui rappresenta la cornice”.

 

                                                                                                                                                                             Patrizia Buttari

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