A commentare questo ennesimo fatto di cronaca che vede nel ruolo di carnefici delle donne, è la dott.ssa Antonella Baiocchi, Psicoterapeuta di San Benedetto del Tronto, autrice del libro “La violenza non ha sesso” (Alpes Italia Editori, 2019).
“Quattro ragazze in bicicletta circondano una donna che sta tornando a casa con due cestini della spesa – commenta la dott.ssa Antonella Baiocchi. Una di loro, racconta la vittima, dà una pedata alla ruota anteriore «con il chiaro intento di farmi cadere». Poi sorpassi, tagli di strada, risate, la fuga. È successo a Giulianova. Nessuna caduta, per fortuna. Ma il confine con l’incidente grave (o peggio) è stato sfiorato. Questo non è “ragazzata”: è violenza.
Eppure, quando le autrici sono donne, la nostra società fatica a chiamare le cose col loro nome. Scatta una minimizzazione quasi automatica: «sarà uno scherzo», «avranno esagerato». È il riflesso di una narrazione unidirezionale della violenza — quella che vede l’uomo quasi sempre carnefice e la donna quasi sempre vittima — che continua a condizionare media, opinione pubblica e perfino prassi istituzionali. Ma la violenza, nelle relazioni e nello spazio pubblico, non ha genere. Può essere agita e subita da chiunque. Ignorarlo non protegge nessuno: anzi, crea nuove vittime e lascia impunite nuove forme di aggressività.
Come psicoterapeuta, vedo ogni giorno le radici di questo abbaglio. Alla base c’è un diffuso analfabetismo psicologico: strumenti culturali e relazionali inadeguati che ci fanno pensare in modo dicotomico (bianco/nero, buono/cattivo, uomo/colpevole e donna/innocente) impedendoci di cogliere la complessità dei comportamenti umani e di allenare un autentico rispetto reciproco. Da questa mentalità rigida nasce anche l’incapacità di riconoscere la violenza psicologica, che non lascia lividi visibili ma ferisce in profondità.
Se spostiamo lo sguardo dal “chi” al “come”, la scena di Giulianova diventa chiarissima: un gruppo in posizione di vantaggio prevarica un soggetto più esposto e vulnerabile. È ciò che chiamo debolicidio: la violenza come supremazia del più forte sul più fragile, indipendentemente dal sesso. Finché confonderemo il problema con il genere dell’autore, colpiremo l’ombra e non la causa reale: la cultura prevaricatrice che può abitare uomini e donne.
Questa cecità culturale ha conseguenze concrete. Nel nostro Paese, il sistema di tutela resta strutturato quasi esclusivamente sulla protezione delle donne e sulla rieducazione dei soli uomini autori di violenza: i CAV (Centri Antiviolenza) accolgono solo donne; i programmi di trattamento per autori di violenza (CUAV) sono rivolti esclusivamente a uomini. Così, gli uomini vittime restano senza porte a cui bussare e le donne autrici senza percorsi di responsabilizzazione e cambiamento. È una discriminazione che, oltre a essere culturalmente miope, contraddice l’idea stessa di eguaglianza dei diritti.
Per questo con il supporto dell’ass. A.Pro.S.I.R. (www.aprosir.it) e di moltissime altre a livello nazionale, ho scelto di promuovere una prospettiva inclusiva e bidirezionale: tutelare tutte le vittime, senza etichette, e offrire percorsi di riabilitazione a tutti gli autori, uomini e donne.
È la logica con cui ho dato vita ormai dal dicembre 2023, al CUDAV (Centro Uomini e Donne Autori di Violenza www.centrorieducativopersonemaltrattanti.it), l’unico in Italia pensato per accompagnare al cambiamento anche le donne che agiscono condotte violente. La prevenzione efficace non è “contro i maschi” o “pro femmine”: è contro la prevaricazione, punto.
Cosa insegna, allora, l’episodio di Giulianova?
- Che le condotte pericolose non diventano meno gravi perché agite da ragazze.
- Che, se al posto di quattro adolescenti ci fossero stati quattro coetanei maschi, la percezione pubblica sarebbe probabilmente diversa: segno che il nostro metro di giudizio non è neutro.
- Che serve educazione relazionale: riconoscere precocemente le condotte di dominio (anche “in branco”), sviluppare empatia, responsabilità e capacità di gestire le divergenze senza ricorrere alla sopraffazione.
Da dove ripartire:
- Riconoscere ufficialmente la bidirezionalità della violenza in statistiche, linee guida e formazione degli operatori (forze dell’ordine, magistratura, servizi sociali, sanitari). La vittima è la vittima, chiunque sia.
- Aprire i servizi a tutti: sportelli di ascolto e protezione per uomini e donne vittime; programmi di trattamento per tutti gli autori, senza esclusioni di sesso.
- Alfabetizzazione psicologica nelle scuole e nelle comunità: superare il pensiero “noi/loro”, allenare competenze emotive e comunicative, insegnare che la forza vera è saper proteggere, non umiliare.
- Comunicazione responsabile: smettere di raccontare la violenza solo quando conferma l’ideologia di turno. Lo scopo non è incriminare un genere ma prevenire la prevaricazione.
Un’ultima nota. A volte si obietta che “le donne vittime sono più numerose”. Ma anche se fosse (e la nostra conoscenza è parziale, perché abbiamo studi asimmetrici) le minoranze non si lasciano senza tutela. In nessun campo accetteremmo che chi è meno numeroso venga ignorato; perché dovremmo farlo quando in gioco c’è l’integrità di una persona?
La scena di una donna che pedala spaventata perché quattro ragazze la incalzano non deve diventare un dettaglio curioso di cronaca. È uno specchio che ci chiede di cambiare sguardo: la violenza è un problema umano, non maschile o femminile. Finché continueremo a guardarla in una sola direzione, continuerà a sorprenderci alle spalle, anche quando ha il volto di quattro adolescenti che ridono. E noi, tutti, resteremo meno protetti”.















