A 82 anni Lauro Azzolini in appena tre anni di clandestinità come brigatista rosso ne ha combinate di grosse (dal 1975 al 1978: Gancia, omicidio Cusano, rapimento Costa, omicidio di Aldo Moro quand’era dirigente ed altro). Ha tentato così di spiegare il suo tormento per il sequestro di Vittorio Vallarino Gancia che il 5 giugno ‘75 alla cascina Spiotta vicino Acqui Terme si trasformò in una tragedia con due morti ammazzati: il carabiniere pennese Giovanni D’Alfonso e Margherita Cagol, moglie trentenne di Renato Curcio con cui fondò le Brigate Rosse insieme ad Alberto Franceschini. Azzolini si è commosso l’11 marzo davanti alla corte d’Assise di Alessandria dove a cinquant’anni di distanza è in corso il processo contro di lui appunto, Curcio e Mario Moretti. “Mi dispiace, non doveva finire così. Avevamo progettato un rapimento a scopo di autofinanziamento che non comportasse danni per nessuno, è finita in quel modo…”, ha spiegato il reggiano Azzolini. Ma, intercettato per così tanti mesi, anche con qualche forzatura, da parte della procura della Repubblica di Torino, l’ex brigatista seguito da un trojan giorno e notte non era apparso così contrito quando descriveva tutte le fasi del rapimento.
A leggere qualche brogliaccio, si apprende che ha apostrofato i due giornalisti, Simona Folegnani e Berardo Lupacchini, i quali sul caso Gancia hanno operato uno scavo archeologico piuttosto profondo nei segreti e nelle bugie della vicenda non facendo sconti a nessuno, nemmeno all’apparato dello Stato. “Quegli infamoni hanno fatto vedere tutti i nomi!!!”, ovvero di quelli comunque implicati. “Infami, hanno però fatto un gran lavoro, vogliono fare carriera”, così si lamentava il dissociato che l’11 marzo invece quasi piangeva: nel ‘76, l’anno dopo i fatti della cascina Spiotta, non esitò un attimo a riempire di piombo Francesco Cusano, vice questore di Biella che, in un controllo stradale, si era accorto della sua patente contraffatta. Era talmente dispiaciuto al punto di dire che se i brigatisti e quindi lui avessero saputo sparare in quel 5 giugno ‘75 avrebbero firmato una strage. Insomma, è Lauro Azzolini: un volto, tanti nomi, mille storie. Oltre ad uccidere in prima persona, ha deciso di sopprimere (Moro) e nel ‘78 a Firenze perse stranamente su un bus il suo borsello grazie al cui ritrovamento i carabinieri arrivarono ad arrestarlo in via Montenevoso, a Milano, in una famosa retata. Si era già distratto nel ‘75 per Gancia (lui e la Cagol non si accorsero dei carabinieri), ancora fra le nuvole nel ‘78 a Firenze.
Le sue amnesie tuttavia dopo la Spiotta non gli impedirono di diventare un fidatissimo di Mario Moretti nel frattempo sempre più solo al comando, anche per una lunga esperienza di latitante, dal marzo ‘76 dopo l’arresto di Semeria. Poi nel 1987 si è dissociato, ottenendo uno sconto di pena in luogo degli ergastoli ricevuti. Ora corre un nuovo, serio rischio di condanna proprio in quella Alessandria dov’era stato prosciolto con formula piena per le medesime imputazioni odierne (l’omicidio di D’Alfonso), sempre in quel 1987 dopo dieci anni di indagini; il fascicolo però si è perso durante l’alluvione. Così vanno le cose della giustizia in Italia: quando erano vivi i testimoni oculari dell’epoca, cioè i carabinieri che operarono alla cascina Spiotta, la fece franca; non lo riconobbero, anzi si può dire che non vollero farlo, dalla foto pubblicata ovunque subito dopo aver ammazzato Cusano al quale era restata fra le mani insanguinate la foto vera di Azzolini apposta sulla patente di Francesco Callipo.
Ma i militari di Acqui, al pari dei brigatisti, avevano sbagliato tanto, troppo (ne parleremo in un’altra puntata) e cercarono di mettere una pietra sopra su quel maledetto sequestro. Adesso Azzolini, inchiodato dalle intercettazioni, confessa di essere lui quello fuggito dal casolare della morte, ma non si accolla la responsabilità di aver sparato al carabiniere pennese. Non vuole che si pensi e che si sentenzi che l’esecutore materiale sia lui, ma Margherita Cagol la quale è deceduta in circostanze misteriose (su quell’aia si era arresa, ma finì al Creatore). Torniamo in aula e ad Azzolini. Il quale ha vergato, lo ha ormai ammesso, quel memoriale spedito a Curcio per spiegargli cosa fosse accaduto il 5 giugno ‘75. Se Curcio fosse stato presente, non glielo avrebbe naturalmente chiesto. Tuttavia Azzolini è imputato di essere l’assassino di D’Alfonso con l’aggravante del terrorismo applicata oggi: all’epoca infatti non c’era. Il concorso morale al sequestro è contestato invece al marito della Cagol che ideò (“Decidemmo il sequestro io, Mara e Moretti” ha scritto in un suo libro di memorie dedicando un intero capitolo di ricordi al rapimento) insieme a Mario Moretti che qualcuno (il nucleo storico) odiava per essere riuscito a fuggire in quella mattinata (chiedere a Enrico Fenzi).
Azzolini, nel racconto dattiloscritto rinvenuto il 18 gennaio 1976 in via Maderno a Milano, dove fu riarrestato Curcio, fuggito da Casale Monferrato tre mesi prima, in pratica annota come fu la Cagol a tirare addosso a D’Alfonso dall’alto verso il basso per finirlo dopo essere usciti dalla cascina lanciando bombe e sparando. Forse non è andata così o forse sì, la verità storica è sempre diversa da quella giudiziaria: il processo celebrato contro Massimo Maraschi, il brigatista che venne fermato dai carabinieri prima di raggiungere gli altri alla Spiotta, non avrebbe prodotto le prove di chi fece fuoco letalmente contro l’appuntato. Azzolini si sarebbe limitato, si fa per dire, a buttare tre bombe svizzere contro la pattuglia guidata dal tenente Umberto Rocca che non avrebbero avuto la forza di uccidere, ma a suo dire solo di creare un grande caos.
Rocca in ogni caso ne restò menomato per sempre dopo aver perso occhio e braccio sinistri. Cosa ha in mente, dunque, Azzolini dichiarando “spontaneamente” cinquant’anni dopo?Si vedrà, se si farà interrogare e controinterrogare come richiesto dalla procura della Repubblica che naturalmente vede coni d’ombra e non è per nulla convinta della verità derivante da questo pentimento cinquant’anni dopo. Vuole salvare Moretti (“Margherita ci avvertì subito-di Maraschi arrestato-e decidemmo assieme cosa fare” rivelò in un suo libro autobiografico) e Curcio che sul caso Gancia dedicò un capitolo in un proprio libro?”Menco”, uno dei suoi nomi di battaglia, appare intanto senz’alcun dubbio colpevole almeno di concorso in omicidio ai sensi del 110 del codice penale. La Cassazione lo ha appena ribadito con una sentenza del giugno 2024 per una rapina nella sua abitazione ai danni di una 90enne sfociata in un omicidio che non era previsto. Sostiene in buona sostanza: in un omicidio (imprescrittibile) non importa scoprire chi abbia fatto cosa, tutti i partecipanti al piano delittuoso che non esigeva il sangue pagano comunque lo stesso prezzo del reato più grave consumato, e gli indizi pesano nella convinzione dei giudici.
Il dissociato dalla lotta armata ormai 82enne Lauro Azzolini non tornerà in carcere dopo 26 inverni trascorsi nei penitenziari più duri d’Italia. Se si farà interrogare in aula, magari svelerà i nomi dei suoi complici nel sequestro di persona, il primo a scopo di autofinanziamento, magari con la possibilità di citare quei brigatisti morti, però: Zuffada, Casaletti, Basone, Cagol naturalmente, Semeria, Alasia. Potrà anche aggiungere senza tema di smentita che c’era Maraschi, tanto ha già scontato la pena per lo stesso reato per quanto arrestato il giorno prima, ma comunque fin da allora ha risposto del concorso in omicidio (110 c.p.).
Il serissimo rischio che corre però Azzolini è che debba risarcire la famiglia D’Alfonso: quelle penetranti intercettazioni, grazie anche alle quali (oltre alle 11 impronte trovate nel memoriale inviato a Curcio), la procura torinese chiese per ben due volte il suo arresto sempre respinto, hanno svelato che l’ex brigatista dal grilletto facile, ma un po’ troppo distratto, è davvero un benestante. Nel frattempo, lo Stato così come l’Arma ha però evitato di costituirsi parte civile nel processo di Alessandria per la morte del povero Giovanni D’Alfonso, lasciato morire da solo in mezzo ai brigatisti dai commilitoni in quel maledetto 5 giugno ‘75. Ma anche evidentemente dopo da una giustizia che all’epoca si dimostrò alquanto superficiale.