UN UOMO SOLO E IN DIVISA
Cinquant’anni fa, il 5 giugno veniva ucciso dalle Brigate Rosse il carabiniere pennese Giovanni D’Alfonso. Ad Alessandria è in corso il processo

di Berardo Lupacchini 

 

Un carabiniere lo si conosce solo quando muore. Giovanni D’Alfonso serviva lo Stato, uno dei tanti valorosi appartenenti alla storica Arma. “Mi chiamo Giovanni e sono un carabiniere. Sto per partire ma vorrei tanto tornare ed incontrarti. Se mi dici di sì, io non aspetto altro che fidanzarmi con te…”: le sue prime parole a Rachele (Adina) Colalongo che diventerà sua moglie nel 1961 quando a trent’anni compiuti all’epoca c’era per i carabinieri la possibilità di sposarsi. “Gli risposi che il tempo e i nostri incontri avrebbero deciso della nostra vita anche se ero sempre più certa che sarebbe stato il mio uomo…”.

 

Giovanni D’Alfonso

 

In quel 5 giugno 1975, giorno dedicato alla festa dell’Arma, Giovanni D’Alfonso aveva appena 45 anni, marito da quattrodici e papà di tre fanciulli. Capitò per caso in quella pattuglia della tenenza di Acqui Terme che si mise sulle tracce dei rapitori di Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato da un nucleo delle Brigate Rosse per estorcergli un miliardo di lire. D’Alfonso era ad Acqui da poche settimane, la famiglia invece ancora in Abruzzo. Avvenne tutto così in fretta. “D’Alfonso venga anche lei” lo comandò Umberto Rocca, il tenente a capo di quella formazione che salì su quella 127 blu.

Un giro di perlustrazione che aveva già un obiettivo preciso: la cascina Spiotta ad Arzello di Melazzo, distante una decina di km da Acqui. Rocca aveva studiato il suo piano tutta la notte dopo che il brigatista Massimo Maraschi, in preda alla confusione ed al panico, era stato fermato dai carabinieri di Canelli e, “ammorbidito”, si era lasciato andare a una soffiata più o meno lunga. Una mattinata calda che cominciò con la scoperta del luogo di detenzione dell’industriale, le bombe a mano contro la pattuglia, la menomazione del tenente e il conflitto a fuoco, il primo, che portò al ferimento letale di D’Alfonso da parte di un uomo e di una donna che poi ingaggiarono un’altra sparatoria con un altro militare ma in borghese: l’uomo riuscì a fuggire, lei Margherita Cagol, la moglie di Renato Curcio, cofondatori con Alberto Franceschini delle Brigate Rosse, morì qualche momento dopo in circostanze mai chiarite.

D’Alfonso la sera che precedette la tragedia era uscito con i colleghi: una cena e un film al cinema cittadino. Sarebbe dovuto tornare a casa, in Abruzzo, per un permesso richiesto come donatore di sangue, ma Rocca volle tutti al lavoro per le imminenti elezioni amministrative del 15 giugno. Giovanni D’Alfonso era nato il 7 febbraio 1930 nell’antichissima Penne, in quella via San Comizio incastonata in uno dei suoi rioni più veraci. La sua famiglia lavorava nel pastificio di Gaetano Sergiacomo, l’attuale e prestigioso marchio “La Rustichella d’Abruzzo”.

Il papà di Giovanni, Donato, si era trasferito lì da Bucchianico dove da bravo mugnaio era alle dipendenze della ditta Orsatti. L’intero nucleo familiare di mastro Donato, che si arricchì di altri tre figli, dovette poi cercare più fortunate sistemazioni a Chieti, cadendo in assoluta povertà per le gravi conseguenze provocate dalla guerra. D’Alfonso era un carabiniere che vedeva nel suo lavoro una missione di vita. Un militare che si fece apprezzare subito ad Acqui Terme dov’era arrivato da Mosciano Sant’Angelo. In quei minuti di fortissima tensione, alla cascina Spiotta, reagì al fuoco dei brigatisti sorpresi e in fuga dalla casa nel momento in cui era appostato nel tentativo di bloccarne l’accesso alle auto parcheggiate sotto il porticato.

La sparatoria che ne derivò conserva ancora oggi una dinamica assolutamente opaca come tutta la vicenda, del resto. Come mai l’appuntato pennese restò da solo a fronteggiare i due brigatisti? Rocca, senza un braccio e l’occhio sinistri, venne accompagnato fuori dallo scenario di guerra dal maresciallo Cattafi e Barberis, l’altro uomo della pattuglia, in abiti civili, era più defilato rispetto a D’Alfonso con cui evidentemente mancò un raccordo operativo. D’Alfonso rimase fino all’arrivo dei rinforzi e dei soccorsi sull’aia della cascina, esanime. Il trasporto all’ospedale di Alessandria ebbe solo la conseguenza purtroppo di prolungarne l’agonia di un’altra settimana. Alla sua memoria fu concessa una medaglia d’argento al valor militare. Quella d’oro invece andò al solo Rocca.

“Il 5 giugno ’75 praticamente quasi tutti ricordano solo la morte di Margherita Cagol, non il martirio di mio padre. Abbiamo richiesto al presidente della Repubblica di rivalutarne il sacrificio anche alla luce delle risultanze processuali in corso alla corte d’Assise di Alessandria dove sul banco degli imputati per il concorso in omicidio ci sono Lauro Azzolini, il quale ha confessato di essere stato lui l’uomo a fuggire, Mario Moretti e Renato Curcio che di quel rapimento furono gli ideatori ed i gestori”, spiega Bruno D’Alfonso, uno dei tre figli della vittima che all’epoca aveva 11 anni, sua sorella Cinzia era di due anni più grande mentre Sonia ne aveva appena due.

“Lo sognavo spesso nei mesi successivi, a volte era in divisa”, racconta la signora Rachele, la vedova. “Una volta in particolare apparve bello, elegante con il suo abito nero. Aprì la porta di casa e mi avvicinai cercando di toccarlo. “Sto benissimo, voi come state?”, mi disse sorridendo. Poi indicò dei cassetti dove avrei dovuto prendere dei documenti. Non vi è giorno che io non lo pensi. Se potessi, gli direi che oggi mi manca più di ieri, vivo nella speranza di incontrarlo, ancora…”.

La vedova è l’emblema del dramma oscuro di un’altra famiglia italiana avvolta dalla ragion di Stato. Giovanni D’Alfonso era un uomo in divisa. Ma incredibilmente solo.

 

 

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