L’OMICIDIO DI GIOVANNI D’ALFONSO
la verità è come la bella di Torriglia, tutti la vogliono ma nessuno la piglia

di Simona Folegnani e Berardo Lupacchini 

 

L’udienza del 17 giugno si apre con Massimo Maraschi. L’ex brigatista fu arrestato dai carabinieri di Canelli poco dopo il sequestro di Vittorio Gancia. Condannato in via definitiva anche  per concorso anomalo nell’omicidio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, Maraschi, che oggi ha 73 anni ne ha passati 24 in carcere.  Su quei fatti oggi la Corte alessandrina gli ha riconosciuto la facoltà di non rispondere.

Maraschi fu segnalato il 4 giugno in seguito a un incidente. La fretta e qualche grossolano errore commesso  anche da parte di chi gli fabbricò il documento di identità, lo portarono dietro le sbarre quel pomeriggio stesso. Risponde in modo generico alle domande. Nessun cenno ad eventuali percosse ricevute in caserma, alla composizione del commando che rapì l’industriale, né ai carcerieri che lo avrebbero avuto in custodia.

La sua auto fu vista nella zona tra Canelli e Cassinasco prima, durante e successivamente al sequestro. Dopo la segnalazione, Vincenzo Sirni, carabiniere della tenenza di Canelli si lanciò alla ricerca del giovane individuandolo proprio vicino al luogo dove Gancia fu rapito. Dentro la sua auto furono repertati oggetti identici a quelli utilizzati dal gruppo per bloccare l’industriale e abbandonati sull’asfalto subito dopo. Si legge nella  relazione rinvenuta nel covo di via Maderno che il giovane avrebbe dovuto abbandonare la macchina ormai “bruciata” e recarsi alla Spiotta, dove era atteso con grande trepidazione dalla Cagol, a bordo di un motorino, parcheggiato  alla stazione. Fu proprio quel documento ad incastrarlo definitivamente anche come terzo carceriere. Oggi ad attendere Maraschi in tribunale non c’era una giuria pronta a condannarlo  ma la speranza di ricostruire almeno in parte questa intricata vicenda. Aspettativa fallita come nella precedente udienza dove protagonisti erano i carabinieri coinvolti nelle indagini dell’epoca. Perché in questa storia le ombre pesano sui comportamenti di tutti.  La sindrome Spiotta, uno storytelling di contraddizioni, in cui l’estremismo e l’omertà si intersecano in un inconfessabile accordo di oggettiva complicità.

Il giaciglio di Mara

Se l’inaspettata confessione di Azzolini ha segnato un punto fermo, sulla vicenda pesano ancora molte ombre. A cominciare dal numero dei fuggiaschi che nei verbali degli investigatori, anche a distanza di giorni, sono sempre due. Solo suggestioni, unite alla necessità di intensificare gli sforzi per la cattura di Renato Curcio, sfuggito qualche mese prima dal carcere di Casale?

Ad alimentare ulteriori dubbi anche i comportamenti poco trasparenti degli investigatori dell’epoca. Spunta da un notiziario dei Carabinieri del 2024, una fotografia inedita, mai allegata agli atti processuali. Abbiamo fugato i dubbi sulla riconducibilità ai locali della cascina piemontese, comparando alcuni oggetti con quelli presenti nelle foto ufficiali. Una sedia, l’attaccapanni, i particolari della porta di ingresso al locale (la forma della maniglia e una pannello di legno sottostante) e la tenda con una trama a quadri.

La foto mostra una brandina ancora allestita per la notte. Sulle coperte un borsone, accanto un paio di stivaletti neri e sull’appendiabiti una tuta scura, una cintura e un borsello. È la riproduzione di una parete della cucina, la n. 12  nella planimetria, l’unica stanza dove la finestra fa angolo con la porta interna. L’allestimento scompare misteriosamente nelle foto allegate al fascicolo in cui il muro risulta completamente vuoto, salvo l’attaccapanni.

Nell’elenco del Nucleo di Torino, si parla di una paio di stivaletti neri da donna. Potrebbe dunque essere il letto in cui ha dormito Margherita Cagol. Perché allora fotografare solo le tre brandine del piano superiore?  Ma soprattutto chi e perché eliminò un intero arredo, quando, quasi con fastidiosa dovizia vennero immortalate damigiane, carte da gioco, bottiglie e altra inutile oggettistica?

La presenza di un’unica relazione sui tragici fatti sembra indicare una sola persona accanto alla Cagol, quantomeno nelle fasi finali della sua vita. Qualcuno tuttavia potrebbe aver sostituito per una notte Maraschi e lasciato il casolare la mattina stessa, magari accompagnato dalla donna, la quale avrebbe poi rassicurato il marito sulla solidità della base, nel contatto telefonico “già concordato” in un bar di Milano. E poi ci sono le dichiarazioni di Gancia che udì passi concitati e un uomo che disse “è fuggito”.

 

La stanza numero 12 della piantina del ’75 dove aveva preso posto Margherita Cagol

 

 

La tenda con una trama a quadri 

 

Particolari della porta di ingresso al locale (la forma della maniglia e una pannello di legno sottostante)

 

Muro completamente vuoto, salvo l’attaccapanni

 

Vero è che sulle leggerezze di quella mattina vi sono almeno tre versioni contrastanti. Quella di Renato Curcio, secondo il quale Margherita reduce da una notte insonne  si era appisolata e l’arrivo dei carabinieri aveva colto di sorpresa il compagno che avrebbe dovuto vigilare.

Mario Moretti che parla di una distrazione comune, mentre secondo Lauro Azzolini entrambi si sarebbero trovati al piano superiore, intenti a leggere i quotidiani, con la Cagol che ogni tanto buttava l’occhio alla strada. Stranamente tutti i giornali, compresi quelli acquistati dalla donna la mattina del 5 giugno, sono stati rinvenuti al piano inferiore, e repertati proprio nella stanza 12, dove era posizionata la brandina.  

Siamo dunque ancora lontani dalla verità e le reticenze non aiutano. Ma nella trama principale spesso si intersecano storie e vicende personali che valgono più di ogni ammissione.

Pietro Barberis non andò a Roma con i colleghi Rocca e Cattafi ma ritirò la croce di bronzo al valor militare dalle mani del prefetto di Alessandria, come si usa nei riconoscimenti conferiti per anzianità di servizio.

Lucio Prati ricevette un encomio e il trasferimento temporaneo a Milano nel nucleo di Dalla Chiesa. Al suo compagno di vettura Stefano Regina, invece, solo un inspiegabile isolamento di 8 giorni in caserma. Nessuna lode neppure per il tenente Alberto Aragno che arrestò il giovane lodigiano.

Massimo Maraschi ha pagato a caro prezzo la collaborazione con le Brigate rosse, e quando durante il processo per i fatti della Spiotta si dissociò dal rapimento di Moro, il Ministero di grazia e giustizia, invece di proteggerlo, lo ripagò trasferendolo da Cuneo al supercarcere di Palmi, dove erano detenuti 70 capi storici delle Brigate rosse. Sembra fin troppo chiaro l’intento. Nel carcere calabrese Maraschi preferì l’isolamento. Per mesi gli fu consentito di non uscire dalla cella finché fu accolto sotto l’ala di alcuni detenuti di Autonomia, che raccontano il suo vissuto come “un carcere nel carcere”. Maraschi ammise la sua partecipazione al sequestro Gancia nel dicembre 1989 allorquando beneficiò della dissociazione dalla lotta armata. 

Interpellato da chi scrive ha rifiutato qualsiasi confronto. Ha risposto picche anche a Bruno D’Alfonso. Intercettato nei corridoi del tribunale alessandrino dal sito filobrigatista Insorgenze rassicura il suo interlocutore “A Canelli ho preso solo un pugno e qualche schiaffo, ma la pressione dei carabinieri era tantissima”. Una durezza che portò a qualche frutto.

“È vero, Maraschi ci diede un’indicazione di massima su dove fosse Gancia. Se telefonai a Rocca ad Acqui, come feci, è perché qualcuno me lo aveva detto”, si lascio’ scappare con noi il tenente di Canelli Alberto Aragno. Una pressione che dopo 50 anni pare ancora gravitare attorno a quello studente-lavoratore di Medicina, che da allora ha ancora paura: di chi, di cosa e perché?

 

Articoli correlati

Pin It on Pinterest

Share This